lunedì 19 settembre 2011

SCRIVO PERCHE' NON SO PARLARE


Quando ero ragazzino ,  la prima volta che mi fidanzai, lo  ricordo come se fosse adesso, la prima cosa che  dissi a quella ragazza fu: "guarda che dovrai sopportare i miei silenzi, perché io non so parlare".
E' vero, dissi proprio così. Proprio con queste parole.
E' stato sempre un mio cruccio quello di parlare, allora preferisco dire quello che devo dire per iscritto.
Mi sento più sicuro, anche se poi molte volte mi pento tantissimo di quello che ho scritto, anche perchè quando dici una cosa per scritto sembra dargli un valore diverso e se sbagli, e  nel tempo che passa, da quando l'hai scritta a quando quella cosa viene letta, se  hai cambiato idea diventa complicato far capire a chi legge che hai scritto quella cosa perché in quel momento la stavi pensando e ci credevi  e siccome non sai parlare l'hai scritta,  ma poi ti sei riveduto  e mentre lui sta leggendo, dopo che è passato del tempo da quando l'hai scritta, pensi il contrario!
Questo mio problema l'ho ritrovato, pari pari,  esposto in maniera brillante in un racconto da Calvino, esattamente in Vento in una città. nella raccolta Prima che tu dica pronto.
Era la stessa identica mia condizione.
Era la storia di un giornalista che diceva di scrivere perché non sapeva parlare. A volte si  svegliava la mattina preso dai sensi di colpa di quello che aveva scritto, perché durante la notte aveva cambiato idea, ma non poteva far niente per tornare indietro perché il giornale era già stato stampato.
Allora  se ne andava nei pulman a guardare gli occhi della gente mentre leggevano le sue parole. e mentre leggevano gli voleva dire: aspetta in quel punto non volevo dire questo, ma quest'altro" pentendosi e vergognandosi di quello che aveva scritto.
Ecco perché un grande scrittore è un grande: qualsiasi cosa pensi,vai a vedere e  lui l'ha gia pensata e scritta!

M.S.





Italo Calvino

sabato 10 settembre 2011

Frammenti, Universi di significato, eternità



Note su L'antiquario e il professore di Mario Scippa, Demian Edizioni 
di Giacomo Ricci



















“I suoi occhi avevano una bella luce, sembravano due piccole finestre che affacciavano su un meraviglioso mondo luminoso, la sua anima”.
Sono gli occhi di un fotografo napoletano, che vive in uno dei palazzi più belli della Sanità, con una straordinaria scala aperta che fa da filtro tra il cortile e il giardino. Filtra colori, odori, sensazioni, con la sua architettura, le sue sculture i suoi cartocci le sue decorazioni. Il fotografo  ha scattato, molti anni prima,  una foto particolare, inquietante, sfuggente, che nasconde qualcosa. 
Detta così sembra di avere a che fare con un giallo, con un mistero napoletano che aspetta di essere messo alla luce. 
Chi per caso s’imbatte, per caso (ma sarà davvero un caso?), in questo interrogativo che pretende risposta è Maurizio Santamaria. Ha nelle mani una foto, trovata e acquistata senza sapere neanche perché in un mercatino,  che apparentemente ritrae una scena banale  di alcuni scugnizzi , sei ragazzotti, che si tuffano nelle acque del mare. Eppure quell’immagine semplice, di semplice divertimento assai diffuso a Napoli,  lo inquieta.   
In una regione non ben precisata della sua personalità, accende domande e sollecita sensazioni diffluenti, indistinte, che spingono ad approfondire, a capire. 
Santamaria è un architetto ma il suo mestiere, quello che ha ereditato dal padre che, a sua volta, l’ha ereditato dal nonno, è quello dell’antiquario. Un mestiere che fa con grande passione, con un impegno tanto spinto che diviene, presto, una filosofia di vita, un modo di leggere il mondo e interpretarlo. 
La sua è una vecchia bottega in un quartiere bene di Napoli. Santamaria si permette una punta di eresia rispetto al mestiere, almeno come lo intendono gli altri antiquari suoi vicini delle zone chic della Riviera e di Piazza dei Martiri.  Una curiosità acuta, un’intelligenza profonda, introspettiva, poliedrica,   questi i tratti della personalità dell’architetto-antiquario, che ne caratterizzano le azioni e la ricerca di senso in ogni minima azione del quotidiano.  
Una storia fatta di inseguimenti, di ritrovamenti di oggetti lontani, di percorsi che portano nei vicoli più bui di Napoli, di incontri straordinari ha così inizio fino a giungere e, in qualche modo, a concludersi in  un rapporto profondo, di straordinaria comunione spirituale. Quello  che si stabilisce tra l’antiquario-venditore e un anziano  scrittore-cliente. Elemento catalizzatore di questa affinità spirituale è un oggetto con la sua aura, il mistero del suo stile, il suo significato, le memorie che ad esso stanno attaccate come invisibili pellicole di senso, l’immaginario di chi osserva che proietta ansie, desideri, timori.  
L’oggetto sarà regalato a chi si ama. 
Ma diviene anche il viatico per un profondo scambio di idee tra i due e di singolare comunanza spirituale.  
Si capisce subito che il libro è  più di una storia. Anzi, a rigore, neanche di storia si può parlare ma di frammenti.  E qui sta il suo pregio, a mio parere. 
E’ Scippa stesso a raccontarci di amare “quelle storie organizzate come la struttura di un albero, dove ciò che  immediatamente si vede  è tutto quello che c’è fuori: il tronco, i rami primari, quelli secondari, i ramoscelli, le foglie agitate dal vento della fantasia”. E più avanti ci confessa che ama “perdersi nel racconto di quelle storie fatte di frammenti di racconti o di libri mai finiti”. Perchè la storia vera, quella che ha significato e che è il vero nerbo di uno scritto, è come le radici, non si vede, ma si percepisce, se ne intuisce la presenza con un atto di amore per il libro, per la vita, per gli altri  e per se stessi. 
Un pensiero, questo cui Scippa allude,  che non mi ha mai abbandonato e che ho vissuto intensamente come rischio, quello del  libro del libro, la racconta del backstage,  come si usa dire oggi , oppure la raccolta, che uno può rimescolare come vuole, di frammenti autosufficienti il cui collegamento arbitrario è lasciato allo stesso lettore.  
Io credo che l’interesse per i materiali della narrazione, per l’aura, per l’atmosfera complessiva,  più che per la storia in se stessa - che non rappresenterebbe altro che un congelamento contingente, e neanche tanto significativo, di quel magma di idee-sensazioni-pulsioni-pensieri-immagini -  si sia stabilito con prepotenza nella cultura europea moderna, quando nel moderno è scoppiata drammatica, la questione dell’Io e della sua dissoluzione , per l’appunto, in frammenti. Quel tutto monolitico che era la personalità ottocentesca, a tutto tondo, indissolubile, monolitica, si è sgretolata. E coloro che hanno scoperto questa frantumazione dell’Io sono, manco a dirlo, Sigmund Freud con la sua lettura della personalità come complesso assieme di pulsioni, atti mancati, libidini represse, super-Io, e gli scrittori europei del primo Novecento,  Joyce e Svevo in testa. Non a caso metto assieme i due, a solo titolo di esempio, data la loro profonda comunione spirituale e il loro lavoro sull’Io attraverso le profondità della speculazione letteraria.  
Credo che in questi temi si sia poi perduta tutta  l’avanguardia, intorno all’idea che la trama sia un gioco da ragazzi, la storiella sia compito del lettore e non dell’autore. L’autore fornisce suggestioni, frammenti, materiali, ingegni, scatole autosufficienti, pensieri, aure per l’appunto, suggestioni di senso compiuto e sia poi l’altro, chi legge  a collegare le cose tra loro come vuole, come gli conviene e come sente di doverlo fare. 
Un’idea interessante questa che nel libro è inizialmente accennata ma che poi, come vedremo tra poco, arriva ad una sua formulazione filosofico-epistemologica estremamente interessante.  
Un libro che, per frammenti, è tra l’altro anche  il  racconto della propria crescita culturale, della personalità in formazione (i riferimenti all’università, al professore cui ci si lega e ai libri che ci formano) che scopre e apprezza il mondo e la città che gli stanno attorno. Che insegue i frammenti che compongo la realtà e pensa riflette, elabora, costruisce atteggiamenti, atomi di pensiero. Atomi che sono infiniti come infinito è un istante preso nella sua autonomia, nella sua individualità conclusa. 
E noi, leggendo di getto le pagine del racconto scopriamo le fasi della crescita, individuiamo i punti di riflessione e di introspezione psicologica. 
Il percorso di frammenti sfila veloce attraverso la città e penetra all’interno di uno dei quartieri più antichi, popolari e densi di significati stratificati e connessi alle strade, ai palazzi, alle opere d’arte e di architettura. 
Belle le pagine dedicate al culto delle anime pezzentelle, un mondo ideale reso con rara efficacia da Scippa con pochi tratti essenziali, fondamentali, indispensabili. 
Con pochi segni, a pennellate rapide,  Scippa evoca, meglio di tanti blasonatissimi antropologi nostrani che rimescolano significati, filosofie e  folkore in pasticci linguistici incomprensibili, assurdi e buoni solo per un’accademia decotta e totalmente entropizzata, molto di moda in questi anni e nella cultura partenopea, alcuni lineamenti essenziali della napoletanità come meglio ha saputo fare solo Erri De Luca.
Ricorda molto il grido “Nu mune’” che De Luca fa dire ad una sua inteprete de Il giorno prima della felicità,  la frase che Donna Giuseppina rivolge all’architetto alla ricerca del fotografo: “Giuvinòòòò! A chi state cercando?”.
E ancora De Luca mi ricorda il gioco che i raggi del sole devono  fare per arrivare dalla cima al pavimento del vicolo stretto quello che Scippa scrive: 
“Scendevano diritti a quell’ora, i raggi del sole, fino ad illuminare i blocchi di pietra, usati da secoli per il selciato”.
Scheggie, frammenti, nuclei solidi di significato elementare che rimandano a una realta complessa e la fanno intuire. 
La storia è un insieme di frammenti autonomi come il tempo. Il tempo è una sensazione uno scorrere fatuo.
“Ogni momento della vita può essere inteso come una forma primaria, fondamentale, perchè l’irreversibilità esclude la ripetizione e un momento della vita può essere vissuto una sola volta ed esprime un significato assoluto: ciò che è vissuto una sola volta è vissuto per sempre, per il male e per il bene”.
E arriviamo alla fotografia di cui dicevo all’inizio di queste note. . 
Santamaria ricerca il fotografo che l’ha scattata e scopre che quella foto è un vero e proprio  congelamento del tempo. Nel senso che l’intero movimento di un ragazzo che si lancia, vola e giunge nell’acqua, viene frantumato nei fotogrammi che compongono l’intera sequenza e che ognuno di essi  è stato realizzato da un ragazzo diverso in un diverso movimento. Insomma il movimento nella foto viene descritto nella sua compiutezza come se si trattasse dei fotogrammi contemporanei di frazioni di istanti successivi. Ognuno dei frammenti di tempo, di autonome briciole del significato complessivo dell’azione è il congelamento, per pura combinazione, dei movimenti di diverse persone. 
“Ormai ne era sicuro, la sua intuizione era giusta: quella fotografia esprimeva che qualcosa di veramente importante, era stato fotografato, ovvero, era stato letteralmente scritto con la luce qualcosa che aveva a che fare con un frammento di eternità che si svolgeva ad una incredibile velocità nello spazio e nel tempo ...Quelle sei piccole esistenze diverse, allineandosi spontaneamente in un cinquecentesimo di secondo, hanno scritto con la luce nel tempo, la parola Eternità”.
straordinaria coincidenza. 
E non posso fare a meno di pensare  al Compianto sul Cristo morto di Giotto e vedo che il pittore ha seguito questa stessa idea, congelando le azioni dei singoli in un’unica rappresentazione come se il movimento fosse fermato nel tempo e desse, per questo l’idea stessa dell’Eternità. 
E’ come se il tempo fosse guardato da fuori mentre si compie,  come se si svolgesse su una ipotetica e metafisica time-line. Guardare il tempo da fuori significa rendere contemporanei gli istanti che compongono l’azione e quindi eternizzarli, ognuno nella sua integrità ed intelligibilità. Il tempo che trascorre non è più irrimediabilmente perduto ma presente e sempre contemplabile. 
Una straordinaria idea quella dell’antiquario Santamaria. Un’idea che è venuta anche a Giotto otto secoli fa e che io ho scimmiottato con un disegno che tenta di rappresentare lo stesso concetto. 
Il libro di Scippa è densissimo di frammenti come questo. Di idee, di foglie dell’albero. 
Un albero che, a ben vedere, si sviluppa per tutto il libro come una foresta. 
Le radici sono nascoste. A ognuno di noi il compito di costruire la storia, di immaginarla. 
Complimenti Scippa.