sabato 23 giugno 2012

Il carattere della bellezza è ambiguo?

UN MIO CONTRIBUTO AL DIBATTITO:
Il ruolo dell'arte tra cultura ed economia
PROMOSSO dal prof. ANTONIO CIRACI
durante il finissage dellla Mostra 5X5
alla Galleria d'arte APOTHECA 
Pozzuoli 21 Giugno 2012

Il carattere della bellezza è ambiguo?
di Mario Scippa

opera di Peppe Gargiulo






Ringrazio Peppe Gargiulo e Antonio Ciraci per avermi invitato a questo incontro. Il tema di questo incontro è Il ruolo dell'arte tra cultura economia.

Io non sono un economista, neanche un artista.

Non posso parlare ne di arte ne di economia, tanto meno del rapporto tra arte e economia.

Sono invece un poeta. Sì! un poeta.

Fino ad un po’ di tempo fa mi imbarazzavo a definirmi tale. La sentivo una parola troppo grande, una definizione per personaggi che vivono nel mondo della fantasia o del mito. Però siccome io ho questo maledetto vizio di non fermarmi su ciò che appare scontato, in particolare sui significati delle parole, visto che tutti mi definivano poeta, ho voluto indagare il significato delle parole Poeta e Poesia.
Poesia deriva dal greco Poiesis, che letteralmente significa fare, creare, inventare. Per cui poeta è colui che fa che crea che inventa dal niente qualcosa. Ebbene mi sono riconosciuto in questa definizione e mi piace definirmi uno che con le parole inventa, crea, fa.
Piuttosto che parlare specificamente del tema proposto dagli organizzatori mi piacerebbe affrontare con voi un discorso che sta alla base del tema proposto e fornire qualche elemento, anche solo di taglio poetico, che credo può essere utile al dibattito. Come vi ho anticipato, io non sono un economista, non sono un sociologo, neanche un filosofo, ma semplicemente un poeta, uno che inventa dal niente qualcosa con le parole, per cui inizierò il mio intervento leggendovi un mio piccolo scritto ancora inedito, che è la conclusione di un lavoro che sto terminando e che come spesso mi capita le conclusioni dei libri diventano le introduzioni.
Si tratta di un romanzo strutturato su un discorso sulla bellezza intesa come potente energia naturale e sul ruolo sociale dell'artista inteso come colui che ha la grande responsabilità di rivelarla.






Il mare, azzurro.


Il mare di Napoli, un ventre gonfio di liquido amniotico dove nascono e annegano sogni, desideri, amori, paure, bisogni e speranze.

La pietra, la pietra di fuoco, quella delle viscere della città, il Tufo, giallo, lavorato e diventato fortezza, il castello sul mare.

Due occhi, splendidi, verde smeraldo, meravigliati e stupiti, lacrimano al vento, 

l'aria.

Fuoco, acqua, terra, l'aria


e le mani che accarezzano un viso.

Il vento. E poi un sorriso. Due gabbiani.

Corpi pesanti, attratti dal centro della terra, cadono, cadono, cadono,
precipitano velocemente verso il basso.
Di sotto c'è il mare.
Le onde si infrangono sulla pietra gialla del castello.
Aleggia un fantasma, è Newton.
La gravità terrestre accelera la caduta. 
Cadono, liberi, senza sforzo.
Il tempo di un corpo che cade rallenta.
Lo slancio, improvviso, forte e deciso.
Il tempo dilata e in un attimo si fa eternità.

Uno schiocco, un arciere Zen, un calcio alla palla è Maradona, colpo di scappello sulla bianca breccia del marmo è Michelangelo, un tasto del pianoforte premuto da Glenn Gould in una fuga di Bach.
No!
È un taglio netto, pulito, sulla vergine, bianca superficie di una tela che va oltre la dimensione scontata. 
E’ Uno schiocco nell'aria.
Lo sforzo incredibile di vincere la gravità si traduce in un suono, secco, breve che accompagna la svolta, l'iperbole esatta, la risalita, disegnata nell'aria dai due gabbiani.
E Poi…. il silenzio.
Ali stese galleggiano nell'aria. 
Nel silenzio c'è tutto.
Perché, non va bene?
Sono frammenti di bellezza o è solo un elenco?
Un elenco, meraviglioso! e poi...
… ci sono anche i miei occhi. 
Sono i miei occhi nei tuoi occhi, vero?
Forse sono i tuoi occhi. 
Come forse è il tuo sorriso confuso col mio e forse è la mia mano, che asciuga la lacrima che cade sul viso.
No! E' il vento.
Ed io bevo il tuo sguardo stupito.

...che bellezza!


In Oculis Gestare. la bellezza di Peppe Gargiulo, con Mario Scippa


foto Saverio De Meo
La bellezza
In un suo intervento all'inaugurazione di una mostra, qualche tempo fa, il filosofo napoletano Aldo Masullo disse: L'arte è uno strumento che ci permette di andare oltre i confini del sensibile, là dove è possibile rintracciare la bellezza.
La bellezza.
La bellezza contiene in sé una forza salvifica, sosteneva Dostoevskij.
La bellezza,
l'unica vera forza che ci può salvare da questo abisso nel quale negli ultimi anni siamo precipitati.
La bellezza,
ci ricorda il grande Erri De Luca, è quella energia potente che vincendo la forza di gravità, partendo dal centro della terra, si espande in tutti i punti dell'universo attraversando ogni cosa, animata e non.

Coloro che fanno arte sono tra quelle persone che hanno il dovere morale di rintracciare e rivelare a noi altri questa potente energia dalla forza salvifica.
Gli artisti, sì!
Perché gli artisti sono coloro i quali riescono ad isolare un frammento di spazio e di tempo dal continuo divenire, ad isolarlo dal caos costruendo un ordine, una forma.
Spesso, questo frammento spazio-temporale viene isolato per caso.
Il Caso. E' quell'attimo di ordine nel caos dell'universo che è intorno a noi, un ordine che è la manifestazione di quella energia di cui parlano De Luca, Dostoevskij, Masullo e altri grandi pensatori:
la bellezza, che viene rivelata dal poeta, dal fotografo, dall'artista, spesso per caso con un'altra potente energia:
la luce.

Bellezza, energia, forma, materia, massa, luce, tempo.

Tutti elementi che l'artista, ogni artista, mette in relazione tra loro per costruire una forma, e lo fa a prescindere dall’uso spesso strumentale che poi l’economia e anche la politica ne fa di questa forma.
Energia, Materia, Luce, Tempo.
Sono gli stessi identici elementi alla base del pensiero di un grande pensatore del secolo scorso, che è stato anche colui che ha completamente ribaltato tutte le teorie della misurazione delle spazio e del tempo e che sulle sue riflessioni sulla materia, sull'energia, sul tempo, sullo spazio, sulla luce,  sono basate tutte le speculazioni moderne nella scienza, nella fisica e nel pensiero filosofico. Parlo di Einstein.
Il quale arriva alla sua famosa formula mettendo in relazione, costruendo una eguaglianza, gli stessi identici elementi che mettono in relazione gli artisti:  l'elemento immateriale per eccellenza, l'energia, con l'elemento materiale per eccellenza, la massa delle cose, in rapporto ad una costante la velocità della luce. E = mc2
Forse Einstein, consapevole dell’esistenza reale di questa forza salvifica naturale, voleva solo trovare una formula matematica per misurarla, una formula per misurare la bellezza. 
Forse.

E=Mc2 ve la ricordate?

Einstein viveva una forte religiosità. Dio per lui a differenza della visione Ebraico-Cristiana, non era un Dio personale, antropomorfo, ma era pura energia che attraversava ogni cosa, era la massima espressione immateriale, l'energia pura, come La Bellezza.
Con questa formula Einstein ci dice che Dio (l'energia) non è altro che la massa di ogni cosa (la materia) moltiplicata per la velocità della luce al quadrato.
Einstein pensava che Dio rivelasse se stesso nella meravigliosa armonia e nella bellezza razionale dell’universo che suscitano un’intuitiva risposta, non concettuale, nella meraviglia, rispetto e umiltà che egli associava con la scienza e con l’arte.

La formula della relatività:

-da un lato ci dice che che il tempo non è oggettivo ma soggettivo, quindi che noi viviamo in infiniti tempi tutti diversi tra loro e che in questi infiniti tempi c'è un continuo attraversamento in ogni cosa materiale di qualcosa di immateriale, che accomuna tutto: l'energia;

-dall'altro ci fa vivere l'annullamento del tempo, quando questa formula viene trasformata e diventa la formula base per la realizzazione della più terrificante delle armi di distruzione di massa che l'uomo abbia mai creato.

Se quella era la formula per misurare la bellezza diventa chiaro che La bellezza, questa grande e potente energia che parte dal centro della terra proiettandosi in tutti i punti dell'universo e che contiene in sé un grande forza salvifica, e che può essere vista e vissuta solo oltre i confini del sensibile, contiene un carattere ambiguo:
da forza salvifica può facilmente tramutarsi in forza distruttiva.

La bellezza ha un carattere ambiguo 
ce lo ricorda anche Dostoevskij quando nella traduzione russa di quella frase la bellezza salvera' il mondo, nel testo originale leggo scritto
MIR SPASET KRASOTA'
che letteralmente significa
il mondo deve salvare la bellezza.
Un netto capovolgimento semantico della frase cui siamo abituati a sentire ma che ci da l'idea chiara del carattere ambiguo che la bellezza può contenere.

Oggi, come mai prima, l' immaginario, il simbolico, si traduce in opera d'arte anche attraverso una valorizzazione economica.
Di questo carattere ambiguo della Bellezza l'economia e, quindi, la politica (che oggi più che mai coincidono) ne sono consapevoli, e la bellezza, quale manifestazione dell'arte è spesso soggetta ad un suo uso strumentale, per ricavarne profitto, quindi potere economico e, con scopi demagogici, contribuisce a ricavare potere politico.
L'arte è principalmente una forma simbolica. Un tempo il simbolo nell'arte era l' equivalente occulto e misterioso di qualcosa di immateriale,
oggi il simbolo si è in certo senso «solidificato» diventando merce.
Dall'avvento della industrializzazione, dalla riproducibilità tecnica dell'arte, dal design alla moda alla pubblicità ecc ecc. ogni nostra azione, ogni oggetto realizzato, riveste un aspetto simbolico. Un processo che permette di individuare la presenza di un sistema simbolico anche oltre i confini stretti dell'arte, come nell'oggetto domestico come nel grattacielo, nella video-performance come nella pubblicità, nella moda ecc ecc.
Certo non dico che si dovrebbe tornare indietro, separando il campo del simbolo, dell'arte, da quello dell'economia, sarebbe impensabile, ma almeno potremmo sperare che in un futuro non tanto remoto, arte e economia, pur continuando a convivere, non rinuncino ad essere guidati da quel misterioso istinto che deve sopravvivere tanto nella merce quanto nell'opera di «arte pura»; e che è il solo a poterci guidare e proteggere nei labirinti simbolici per sancire il valore (autentico non solo economico) dell'arte.

Ma questo obbiettivo, di felice convivenza tra queste due dimensioni, a mio avviso, potrà raggiungersi solo quando l'artista diventa consapevole del suo importante e fondamentale dovere morale che è quello di rintracciare e rivelare agli altri la bellezza, che può solo farlo svincolandosi completamente dai meccanismi economici e politici i quali hanno tutti gli strumenti necessari per trasformare la bellezza in qualcosa di tremendo ed orribile.

L'artista, ovvero colui che ha il dono della natura di poter rivelare la bellezza, per essere tale deve prima di ogni altra cosa sentirsi leggero e libero di volare come quei due gabbiani.
Deve essere consapevole che quella leggerezza la può raggiungere solo con un incredibile sforzo anche fisico e che se non riesce a librare e a volare nel vento corre il rischio di diventare solo uno strumento per l'economia e per il potere politico di turno, vivendo una vita fatta di falsa leggerezza come quella di una piuma che lentamente cade, sprofondando nell'abisso della vacuità.

Grazie
M.S.
© copyright 2012

giovedì 14 giugno 2012

CUM FINIS Il salotto ANTICHITA' SCIPPA arte&cultura presenta Cutis Parthenope fotografie di Massimo Buonaiuto a cura di Mario Scippa

CUMFINIS
Il salottoANTICHITA' SCIPPA arte&cultura
presenta
Cutis Parthenope
fotografie di
MassimoBuonaiuto
a cura di
Mario Scippa






Pelle


agitatadal vento gelido, il colore


sbiadito,sfuma la forza. E' impotente


ilmio sguardo, ti segue e poi si perde,


ritrovandosinel silenzio, giù, nel mare.




Un'acquaghiacciata, il caldo pensiero


scioglie.Due lampi di luce, improvvisi,


violentisegni. Il suo tempo è andato.


Luce,aria, erano cibo, ora son nemici.




Pelle,


orasogni la mano calda. Ferma,


daquando nascesti la tua vita guadata:


passione,amore, dolori, piaceri e odio.


Haidanzato nel vento e farfalle cullato.




Trasparentigocce scivolavano, labbra


delcielo sulla tua pelle, fresco mattino,


dicristallo. Il colore lento si trasforma.


Bellaancor di più, ora sei quasi sogno.




Pelle,


vibrala tua, la mia mano sfiora.


Unfremito di piacere prima della fine?


Ilcolore tuo è nei miei occhi, da sempre.


Coloredel calore, nel tempo fu tremore.



Unturbine, pura passione, agita ancora


lamia emozione. Solitaria l'immagine,


stanca,Piccola macchia, colore nel cielo


grigio.E' il tuo riflesso nei miei occhi.




Tesa,trasparente, trema al vento è la tua


Pelle









Lasettimana scorsa a Pozzuoli abbiamo parlato del territorio Flegreopartendo da un sepolcro,dal sepolcro di un mito, quello di Miseno iltrombettiere di Enea.
Anchequi a Napoli abbiamo un sepolcro in mezzo al mare, lo scoglio diMegaride, dove c'è il castel del'Ovo.
!forse non tutti sanno che anche quello è un sepolcro di un mito,anzi di due miti:
ilprimo fa riferimento al mito pagano, quello della sirena Partenope;
ilsecondo allareligione cristiana che a Napoli diventa mito, quello di SantaPatrizia


SantaPatrizia, di Costantinopoli,come Partenope era una vergine, diede voti di verginità, e permantenerli dovette fuggire dalla città perché l'imperatore Costante(nel VII secolo) le voleva imporre il matrimonio. Fuggì inpellegrinaggio verso la terra santa. Una terribile tempesta la feceperò naufragare sulle coste di Napoli e più precisamentesull’isoletta di Megaride (Castel dell’Ovo), dove muore.
Ilsangue invece sarebbe uscito miracolosamente da un alveolo di undente strappato da un cavaliere romano in unmomento didevozione esagerata.Un mito del bene assoluto che insiemea san Gennaro è patrona della città, e con il mito di san Gennaroha in comune lo scioglimento del sangue.

Lasirena Parthenope, adifferenza da come è vista nell'immaginario collettivo, è unibrido tra una donna e un uccello, non ha nulla della belladonna-pesce, nuda, con i capelli biondi che riescono appena acoprirle il seno.
Lacreatura originaria era un essere mostruoso lacui funzione era proprio quella di rendere familiare l’orrido.
Unibrido, come la città di Napoli era per metà osca e per metàgreca.
Lesirene sono manifestazioni del demone meridiano che con il suoincantamento induce sonnolenza ai naviganti e, con la dolcezza dellosciabordio dell’acqua, li accompagna verso la morte. Qui,nel golfo di Napoli, dove i piccoli scogli erano ricoperti di ossabianche, consunte dalla salsedine, quelle dei marinai vittime dellamalia.

LeSirene ammaliavano, con il loro richiamo seducente,i naviganti di passaggio che, soggiogati dal loro canto, perdevano ilcontrollo delle imbarcazioni andandosi a schiantare sugli scogli.
Parthenopenon ci riuscì con Ulisse e si suicidò buttandosi in mare.Il corpo della sirena Parthenope fu portato dalle correnti marine tragli scogli di Megaride (dove oggi sorge il Castel dell'Ovo), e lìgli abitanti trovarono la dea, con gli occhi chiusi nel bianco delviso e i lunghi capelli che ondeggiavano nell’acqua. Venne posta inun grandioso sepolcro, diede nome al villaggio di pescatori e divennela protettrice del luogo, venerata dal popolo e onorata con sacrificie fiaccolate sul mare.

Illuogo dove Napoli ha origine è un sepolcro e contiene due miticontrastanti:
ilbene e il male
Lasirena e la Santa.

Lemostre personali della rassegna CumFinis, sonopartitecon le fotografie di Malja Brando, Opus Reticulatum, l'operareticolare, evocando, simbolicamente, il tracciato reticolare checaratterizza da un lato l'antico muro romano, e dall'altro iltracciato ortogonale della città, elementi simbolici, ordinatori, sucui è fondata la nostra città, Napoli.
Imuri di una città sono il segno più evidente del mutamento urbano esociale. Grazie al loro incessante costruirsi, ricostruirsi emodificarsi sono testimoni privilegiati, prima di ogni altra cosa,dell'aspetto sociale di una città.
Imuri sono ciò che costituiscono la Pelle della città. Quel confineper eccellenza, ambivalente, tra ciò che contiene e ciò che èfuori.
Inarchitettura e in urbanistica il termine "pelle" perdefinire questo confine, oggi è molto in voga, ma ha radicilinguistiche antiche. Ne parlano Vitruvio (II, 8) e ancor piùl’Alberti (VI, 9), ma ne parlano essenzialmente come ornamentodelle murature.
La“pelle” vitruviana e albertiana erano un rivestimento permateriali vili, come lo sono, a parte la funzione protettiva eregolativa, la pelle per i tessuti muscolari o l’abito per il corponudo. Quel rivestimento più esterno di un corpo che protegge itessuti sottostanti, che può avere varia colorazione, ed è unastruttura che può andare incontro anche a processi d'invecchiamentopiù o meno visibili. La “pelle” vitruviana e albertiana è quel mediatore tra l'organismo e il mondo esterno, che ha diversefunzioni, prima tra tutte quella di proteggere, costituendo la primalinea di difesa dell'organismo contro le aggressioni esterne.
Costituisceanche una barriera asciutta e relativamente impermeabile contro laperdita di liquidi. E' anche un mezzo tecnico per far fronte adiverse esigenze, come per esempio quella per la regolazione dellatemperatura.

Massimo Buonaiuto

La pelledella città, come la pelle di un corpo, può contenere un carattereambiguo.
Comeambigua è CUTIS PARTHENOPE la pelle di Napoli nelle fotografie diMassimo Buonaiuto.

Daun lato è una pelle morbida Calda,che avvolge e protegge l'intera città vista da uno dei suoi puntipiù alti, dalla collina del Vomero, dallaPedementina, chesembra essere uniforme sugli edifici e sulla natura, fino al Vesuvioche sullo sfondo, come una escrescenza naturale su un corpo, sembranaturalmentetenderla.




Daun altro lato, come nel corpo della sirena, mostra la sua naturaibrida, la pelle squamata della periferia Est,dove i muri sono di acciaio e di vetro, in contrasto conil tufo,l'elemento naturale con cui è caratterizzato il muro di Napoli.



Questoè ciò che appare scontato parlando della pelle di una città,ma noi all’iniziodi questa rassegna abbiamo detto che:
la fotografia, come la poesia, èuno strumento che ci permette di andare oltre i confini delsensibile, oltre ciò che appare scontato.
Eabbiamo anche detto che la pelle di una città è ambigua.
L’ambiguitàdella “pelle” sta tutta nella funzione del ricoprire che, secondoi casi, può rivelare meglio o dissimulare la natura della cosanascosta.

In queste foto lavera pelle rappresentata dal fotografo non sono i muri comepotrebbe essere scontato che sia, ma lapelle della sirena partenope il fotografo l’ha individuata nelcielo.

Ilcielo sulla città, checopre, riveste, protegge, amalgama le diversità e i contrasti, lesimilitudini, le asprezze, le delicatezze, culla gli amori idesideri, quel cielo che si apre in alcuni punti della città ed èframmenti o sottili strisce di azzurro strette e lunghe che sipossono osservare solo a testa completamente alzata con il naso peraria se si è fisicamente nel suo corpo, nel ventre della città, neisuoi vicoli.
Ilcielo, quanto è bella questa parola, ripetetela nella vostra mente,vedete come suona bene: ci da tutta l’idea della morbidezza dellaelasticità della materia che la compone, la morbidezza el’elasticità della pelle di Napoli.
Buonaiutoci fagustare unlembo quadrato di questa pelle della sirena, dall'internodel cortile di uno dei più bei palazzi napoletani il palazzo delloSpagnuoloai Vergini, nella Sanità. Una sua particolare visione di quelladelicata superficie di confine tra ciò che è fuori e ciò che èdentro la città.

Ilcielo come la pelle,
così come l'ha descritta un grande negli anni50' :

«Èuna vergogna che ci sia al mondo un cielo simile. È una vergogna cheil cielo, in certi momenti, sia com’era il cielo in quel giorno, inquel momento. Ciò che mi faceva correre per la schiena un brivido dipaura e di schifo, non erano quei piccoli schiavi appoggiati al murodella Cappella Vecchia, né quelle donne dal viso scarno vizzoincrostato di belletto, né quei soldati marocchini dai neri occhiscintillanti, dalle lunghe dita ossute: ma il cielo, quel cieloazzurro e limpido sui tetti, sulle macerie delle case, sugli alberiverdi gonfi di uccelli. Era quell’alto cielo di seta cruda, di unazzurro freddo e lucido, dove il mare metteva un remoto e vagobagliore verde. Quel cielo delicato e crudele che sulla collina diPosillipo dolcemente incurvandosi si faceva rosso e tenero come lapelle di un bambino».
EraCurzio Malaparte ne "La Pelle".
M.S



giovedì 7 giugno 2012

Il TUFO, la nostra intima MATERIA. I CAMPI FLEGREI alle origini di Napoli Il mio intervento alla presentazione del libro di Francesco Escalona Giallo Tufo e della mostra Miseno Di Vincenzo Aulitto alla Galleria Apotheca a Pozzuoli


Il TUFO 
La nostra intima 
Materia 

di Mario Scippa

Sono felice di partecipare a questa serata dedicata a Miseno e ai Campi Flegrei.
Luogo di storia e di Mito. 
Terra amata e martoriata. 
Per la forza evocativa degli antichi miti e la ricchezza storica e naturalistica, che contaddistingue questo territorio,  per la bellezza che emerge dal sottosuolo, in tutte le sue forme, immateriali e materiali,  dall'energia pura che emergendo attraversa ogni cosa,  fino alla materia lavorata dagli antichi che in qualsiasi punto della terra andiamo a scavare troviamo una testimonianza, per tutte queste cose più tante altre è sempre poca ogni nuova parola che si spende per questo territorio straordinario che è custode di tutta la nostra memoria.

E' un piacere ed un onore poterne parlare insieme all'artista Vincenzo Aulitto, autore delle opere dal titolo Miseno, qui esposte,  e con l'architetto Francesco Escalona, autore del bel libro Giallo Tufo, che ho avuto l'onore di presentare già nel mio salotto culturale Antichità Scippa arte&cultura

Miseno
Il nome di Miseno abbiamo visto, nella splendida interpretazione che ci ha regalato la brava Adele Pandolfi, che tutti voi conoscete, accompagnata dal maestro Giuseppe Causa,  si connette al mito dell'Eneide di Virgilio.
Adele Pandolfi 
(ph. Simonetta Volpe)
Giuseppe Causa

Miseno era il trombettiere di Enea, che avendo sfidato Tritone nel suono della tromba, era stato da questi precipitato in mare dove era miseramente annegato. 
Enea, trovato il suo corpo gettato dalle onde sulla spiaggia, ne appronta il rogo, quindi lo seppellisce sotto un immenso tumulo di terra (il Capo Miseno per l'appunto), quasi una grandiosa tomba a perenne memoria dell'eroico compagno.

Nell'opera di Vincenzo Autillo la rappresentazione di Miseno è un riferimento costante, è una manifestazione totemica che sembra essere per l'artista un orientameto spaziale e, sopratutto temporale in quel territorio mentale oltre I confini del sensibile. 
Nella sua opera si legge un atavico attaccamento alla sua terra, alla sue origini, prima che nella dimensione materiale in quella del mito e del simbolo, ovvero nella vera dimensione umana, quella che ci differenzia da tutti gli altri animali: la dimensione della memoria e della necessità tipicamente umana di poterla trasmettere e comunicare: la dimensione della cultura.
Vincenzo Aulitto 
(ph. Simonetta Volpe)

Oltre all'arte uno degli strumenti per eccellenza per la trasmissine della memoria e, quindi, della cultura e che tante volte ci permette di andare oltre ciò che appare scontato è il libro.
Stasera insieme alle straordinari opere di Vincenzo  Aulitto , dal forte valore simbolico ed evocativo presentiamo un libro altrentanto carico di potere evocativo di immagini: 
Giallo Tufo, di Francesco Escalona.

In genere per me leggere un libro è sempre una meravigliosa avventura. E' una porta che si apre verso inattesi universi. 
Universi formati da quelle immagini che scatiriscono dalle parole dell'autore, che si combinano con quelle altre immagini sedimentate dentro di noi che proprio quelle parole riportano a galla dall'oceano mare della nostra memoria.
Una volta scrissi un piccolo testo su questo tema, era l'immagine di libri custoditi in uno spazio, forse una biblioteca, e ogni libro era una porta, aprendo una delle quali si presentavano universi diversi e altrettanto porte da aprire e così via, si intitolava 

Stanza.

Da dov'era partita, seguendo la linea 
fino all'infinito, arrivò. 
Cerchio. 
Sacro tempio. Inviolabile fortezza,
denti aguzzi di un affamato coccodrillo.

Muri, stanze. Dov'è la parola? 
La porta!
Il suo passato perso, tra ventiquattro porte 
La mano incerta provò. Nuova si aprì 
davanti a lei una stanza. 

Orizzonte bloccato, linea spezzata.
Poi ancora porte, ventiquattro. 
Al centro un violino,
silenzioso equilibrio col fuoco, 
il suo cielo la volta, vela senza centro.

Cercatrice del mistero nel cerchio,
bloccata. 
Di notte, antichi Muratori, 
riflessi negli occhi di una scimmia, 
innalzavano muri, 
di perché.


Il pensiero, l'idea, è come una linea nera che traccia un percorso sulla materia gialla



Giallo Tufo. Di Francesco Escalona è stato per me una di quelle porte da aprire. Un libro saturo di immagini, ricco di stimoli per chi vuole viaggiare e conoscere quel territorio fisico, storico e mitologico, in cui si svolge la storia, ma anche stimolo, per chi come noi, che appartenendo a questa terra  abbiamo sedimentato nella nostra memoria tante immagini, vissute o raccontate. Un libro come una porta valicando la quale ci si può perdere nel proprio labirinto della memoria incontrando all'interno altre porte ancora da aprire. 
Francesco Escalona
(ph. Simonetta Volpe)

Giallo Tufo. Oltre a narrare una storia , l'autore ci narra dei Campi Flegrei, luogo straordinario, dove si materializzano i simboli universali della vita espressi nei quattro elementi fondamentali: Acqua, Fuoco, Aria e Terra.  
I Campi Flegrei Sono I luoghi delle origini  di Napoli I luoghi delle nostre origini. 

Mario Scippa e Vincenzo Aulitto con le loro mani su: LA MIA TERRA

Ora vi voglio raccontare tre immagini che sono salite a galla dalla mia memoria leggendo il libro: 
Sono immagini di tre momenti della mia vita che fanno riferimento alla forma dell’architettura tagliata nella roccia che ritroviamo nelle cavità, nella città di sotto, e che a mio avviso è il primo dei segni tangibili che rimandano le origioni di Napoli al territorio Flegreo.
Pensate all’antro della Sibilla, quella sezione trapezoidale è stata il modello per tutte le cavità sotterranee di Napoli, da cui è stato ricavato la materia per costruire la città, e allo stesso tempo degli ambienti di una bellezza straordinaria..

La prima immagine della città di sotto si riferisce a quando ero molto piccolo e risiede nel campo delle parole, nei racconti ascoltati dai miei parenti vecchi.
Io sono originario di un vicolo del rione Sanità un pezzo della città ricco di storia di simboli.
Da quei racconti, anche se non li ho mai visti, ho sedimentato dentro di me le immagini dei cosiddetti “ricoveri”. 
Quelle enormi cavità sotto ogni palazzo del vicolo, spesso comunicanti tra loro. Ne sentivo parlare da bambino di questi luoghi, dove in tempo di guerra la popolazione si riparava dai bombardamenti.  
Ascoltavo i racconti dei vecchi di storie vissute o semplicemente inventate in questi luoghi.
Nell’immaginario di bambino incantato, quei luoghi erano per me luoghi magici, li vedevo nella mia mente quasi come se fossero enormi basiliche scavate nella collina, dove vivevano personaggi strani e si svolgevano chissà quali riti. 
Il “ricovero” sotto al mio palazzo, del vico Lammatari 12,  scendeva a due livelli sotto, e sotto si diceva che scorreva un corso d’acqua ed era addirittura ormeggiata una barca. I vecchi dicevano che quel corso d’acqua arrivava fino a Santa Lucia, al mare, “for’ a Caracciolo” (ricordatevi questa espressione: For' a Caracciolo). Io immaginavo che la sotto vivesse un omino traghettatore, una sorta di Caronte tassista che non aveva mai visto la luce del sole.

La seconda immagine di luoghi analoghi è dentro di me dalle prime esperienze di ragazzino che vuole scoprire il mondo.
Ricordo  un'altra cavità, :“o’ cavone aret’o’ Mont’’e Cristallini” (ricordatevi pure quest'altra espressione a ret' o mont). 
Era una grandissima cavità scavata sotto la collina di Capodimonte, sul lato Nord-Est del quartiere Stella, dove da ragazzino mi inoltravo insieme ai miei amici. Attraverso dei sentieri sotterranei potevamo raggiungere un cunicolo in salita quasi verticale che ci portava direttamente nel Bosco Di Capodimonte. 
Ricordo la luce che filtrava da quel cunicolo, da lontano sembrava un faro che proiettava il fascio sulla parete, e tutta la cavità era illuminata da quella luce riflessa. 
Ricordo che a ridosso della bocca di apertura di questo cavone, c’erano tante piccole aperture, tutte rifinite con infissi colorati e pareti piastrellate,  e improbabili terrazzini si affacciavano sullo slargo e ognuna con una propria scala che sembrava scavata direttamente nella montagna. Erano case, scavate sulla collina di tufo. 
In una di quelle case abitava un mio caro amico, Gerry o’ Nirone (perché aveva la pelle di un colorito scuro, come un marocchino).
La sua casa era costituita da due piccoli ambienti, uno dentro l’altro, e l’unica apertura era quella da dove entravo, quel foro nella montagna con il terrazzino davanti. 
Ricordo una particolare sensazione che avvertivo ogni volta che l’andavo a trovare. 
Una sensazione scaturita dall’odore della pietra: un odore acre, forte, riconoscibile tra tanti: era l’odore del tufo.

La terza immagine, sempre degli stessi luoghi, è quella scaturita della consapevolezza.
Crescendo, un po' per studio, un po' per curiosità personale, sono andato a ricercare quei posti, e mi sono accorto che questi luoghi della materia, nati per una questione pratica (reperire materiale da costruzione) così come sono stati realizzati, nel corso dei secoli, per la loro forma, la luce, il taglio delle pareti, per quei grandi spazi che si potevano raggiungere solo da piccoli cunicoli e che si aprivano davanti agli occhi improvvisamente, avevano quel carattere che io immaginavo da sempre. 
Queste cavità, oltre ad essere degli spazi fisici di una bellezza straordinaria, sono anche carichi di una straordinaria energia, un particolare “genius loci” tali da far vivere a chi ci entra una dimensione magica, spirituale.

Purtroppo, negli ultimi decenni questi luoghi sono stati abbandonati a se stessi, usati come luoghi di risulta,  dai malavitosi, come tutte quelle cavità del vallone dello Scudillo e delle Fontanelle, dove all’interno delle quali, per decenni, hanno fatto da padroni, svolgendo i loro loschi affari e nascondendo casse di sigarette, auto rubate, armi, ecc.
Poi, dopo lunghi dibattiti promossi da intellettuali, ambientalisti, urbanisti ecc, negli ultimi le Amministrazioni hanno incominciato a pensare che potevano essere considerati delle risorse. Molti di questi luoghi effettivamente sono stati riconsiderati ma il più delle volte sono state politiche di riqualificazione mosse da una malacultura vestita di nuovo, che con la scusa della rivalutazione e del riutilizzo per il bene della collettività, il vero obiettivo è sembrato essere quello con fini speculativi, sacrificando, oltraggiando e mortificando, dal mio punto di vista ancor di più,  la bellezza e il “genius loci” di questi luoghi.

Un esempio di quello che sto dicendo, sono le cavità di Pizzofalcone. L’ultimo vanto di Napoli, uno spazio straordinario e di alto potere evocativo, dove la sensazione che si provava entrando era la stessa che si prova entrando in una spettacolare cattedrale Gotica. La luce che filtrava all’interno era meravigliosa, in particolare al pomeriggio, quando un fascio cadeva prepotentemente dall’alto colorando tutto l'ambiente di tufo di una magico giallo dorato.  In virtù della necessità e del riutilizzo si è completamente distrutta questa meraviglia. Venduta ad una società privata, oggi è un parcheggio a 5 stelle.  Complici dei politici, voglio credere alla loro buona fede, poverini siccome non ci arrivano hanno pensato di fare cassa rispondendo alla domanda di riutilizzo di questi spazi, a mio avviso, sono anche e soprattutto gli intellettuali, gli storici ,  le sovrintendenze e tutti gli organi competenti e che hanno tutti gli strumenti sensibili per misurare la preziosa bellezza di un luogo: nessuno di loro ha fatto niente affinché non si compisse questo scempio.

“[...]al giorno d’oggi, (dice Francesco Escalona nel suo Giallo Tufo) comunque, e in questo ha proprio ragione Margherita, sopratutto da queste parti, si sottovaluta troppo quanto possa contare l’aspetto culturale e quello del senso di appartenenza di un popolo ad un passato nobile, per condividere e realizzare grande idee e grandi progetti; programmi politici ambiziosi. Per sfuggire ad egoismi dilaganti e ad una incultura imperante tesa solo al raggiungimento di fini personali e di corto respiro[...]”

Questa frase la faccio mia perchè spiega esattamente quello che penso e non avrei trovato migliori parole per spiegare l’incultura imperante che regola i processi decisionali nella trasformazione dei territori, ed è una frase che  mi ha fatto venire in mente, subito, appena la leggevo nel libro, un’altra frase di un’intervista a Massimo Cacciari da Claudio Velardi, in Città Porosa. Era il 1992 ed è attualissima:

“La mia città, il mio paese non può essere massacrato da voi, camorristi o dissennati politici che siate! Il mio paese ha questa memoria, ha queste straordinarie potenzialità, ha questo destino, ha questo significato simbolico, e voi non potete e non dovete impadronirvene…. VADE RETRO SATANA, non potete massacrarmi Venezia, non potete massacrarmi Napoli!”.

La povertà culturale di chi ci governa, che sembra non voler capire la vera potenzialità di Napoli, alla pari della speculazione dei malviventi che per anni hanno usato le cave, è quella di considerare questi luoghi non tanto per le loro intrinseche potenzialità legate alla memoria, individuale e collettiva, da salvaguardare e custodire, ma come luoghi di risulta, vuoti da riempire.
Una povertà culturale che solo un vero accorpamento tra tutte le forze culturali, anche politicamente trasversali, potrebbe e dovrebbe combattere .

Poco fa, e concludo,  citando alcuni luoghi di Napoli ho usato espressioni (che vi ho pregato di ricordare) nello stesso modo che comunemente usiamo noi napoletani per definire la toponomastica, e che esprimono un rapporto corporale col territorio: for', ncopp, miezz, abbascio'...
Nella individuazione dei luoghi noi napoletani usiamo sempre un rapporto corporale col territorio proprio come un bambino con la sua mamma lo usa per il suo orientamento nello spazio.

Vincenzo  Aulitto  LA MIA TERRA 


Questo nostro rapporto corporale con la nostra terra ce  l'ha ricordato anche Vincenzo   Aulitto   con quella sua esigenza di rappresentare il rapporto corpo-terra con il contatto fisico: come quelle mani che toccano, affondano, quasi a voler ripercorrere un percorso ancestrale a ritroso nel tempo in un grembo materno, come voler ricordarci che nei campi Flegrei così come a Napoli, questi luoghi del tufo sono i luoghi della  nostra più intima materia. 

La parola Materia ha come radice etimologica Mater, ovvero la stessa radice di Madre.
Profanare questi luoghi con progetti aberranti che li snaturano è come profanare la Madre di ognuno di noi.

Pozzuoli 6Giugno2012

M.S.