giovedì 26 maggio 2011

GIOVEDI 9 GIUGNO ORE 18.30: PIETRE DI FUOCO di Giacomo Ricci

INCONTRO N°6:

GIOVEDI 9 GIUGNO ALLE ORE 18.30

"La parola è come una pietra nel futuro del libro?"

conversazione sul libro di
GIACOMO RICCI:
PIETRE DI FUOCO




"Il cadavere di un uomo, nudo e senza testa, viene trovato nella cappella Sansevero, all’apertura del museo, dal custode don Arturo, e la notizia fa subito il giro della città di Napoli. Da questo incipit parte la storia, che ha per protagonisti il prof. Giuliano De Luca, ordinario di filosofia alla “Federico II” e il suo assistente. Ben presto si capisce che il corpo ritrovato è del preside della Facoltà di Lettere e che tutta l’università di Napoli è coinvolta nel delitto. Da qui la vicenda si muove nella Napoli antica, rispolverando paure, leggende e vecchi fantasmi" da Pietre di fuoco"
g.r.




INTERVERRANNO:
arch. Giacomo Ricci, ( Scrittore, docente di Progettazione Tecnologica Assistita presso l'università di Chieti-Pescara);
Prof. Rodolfo Napoli, (Ingegnere, docente all'università degli studi di Napoli Parthenope)
dott.ssa Rossana Di Poce, (Archeologa editor);
arch. Mario Scippa (antiquario, scrittore).

al SAX Gino Malvone

Ci saranno anche altri ospiti e l'autore offrirà un gustoso buffet portando nel salotto i sapori e gli odori della costiera amalfitana.
Vi apettiamo, ingresso libero.


info: 0817642922 anti.scippa@tiscali.it

sabato 21 maggio 2011

LA PAROLA E' PER UNO SCRITTORE COME UNA PIETRA,

GIOVEDI 9 GIUGNO ORE 18.30





Conversazione sul libro

PIETRE DI FUOCO

di Giacomo Ricci





PIETRE DI FUOCO

o

parole di fuoco quando raccontano di fatti che sembrano essere conosciuti da tutti, ma rivelati da pochi. Come quelli della baronia universitaria che gestisce le cattedre e quindi la trasmissione del sapere.
Parole che diventano di fuoco quando illuminano quei vicoli dei quartieri, dove la luce fa fatica ad arrivare fino al selciato, luoghi dove non si è mai voluto affrontare seriamente una politica di trasformazione urbana che mirasse ad una vera riqualificazione, anche con interventi radicali sul territorio, con coraggio e determinazione, con l'obbiettivo ultimo quello del miglioramento della qualità della vita di quei posti; diventano di fuoco quando disegnano il ritratto del femminiello, deriso e cercato da tutti, e che nell'immaginario delle persone cosiddette “perbene” incarna il male.
M.S.

Pietre di Fuoco di Giacomo Ricci
Pietre di fuoco è titolo suggestivo. Per la lettera del significato e per le metafore che suggerisce. Io, quando l’ho scelto, ho pensato, soprattutto, alla lettera, al significato fisico-geologico della parola “fuoco”. Pietre di fuoco sono quelle vulcaniche che fanno lo scheletro di Napoli. Napoli è città di fuoco perché è nata sotto un vulcano tra i più inaffidabili che la sorte ci potesse riservare. Basalti, piperni, graniti sono le pietre degli esterni del Centro Antico napoletano, delle strade, dei rivestimenti, dei cornicioni, dei basamenti, dei portali, delle decorazioni. Le facce, i mascheroni, i festoni, gli addobbi, sono tutti scolpiti nel piperno. I balconi, le soglie, gli stipiti delle finestre. In tutte le variazioni di colori, dal grigio scuro al nero antracite.
Proprio come le pietre del Vesuvio.
E poi quella splendida pietra tipica della Campania, ma in particolare del napoletano, che è il tufo.
Pietra di fuoco anch’essa anche se più dinamica: roccia piroclastica che, letteralmente vuol dire, rotta dal fuoco. Le rocce piroclastiche sono dovute alla sedimentazioni di frammenti vulcanici, del loro depositarsi, dall’aria in cui sono lanciati da grande velocità e altezza dal vulcano incazzato, a terra, cementandosi, poi, in grandi blocchi monolitici con il passare del tempo, dei secoli, dei millenni, delle ere.
Una città di fuoco, dunque, per sua natura. Una città di fuoco, scavata da sotto e eretta sul vuoto delle caverne maestose che traforano la terra su cui poggia.
Una città che è una specie di labirinto-termitaio, fatta di frammenti incandescenti che si sono raffreddati.
Da questa base fisico-geologica nasce un coacervo di suggestioni che si trasformano, immediatamente, in metafore, in operazioni linguistiche che servono a raccontare lo spirito, l’inconscio, il sostrato di pensieri che attraversano il popolo che ha abitato questi luoghi da sempre.
Una città che non smette di suggestionare la fantasia e accendere, per così dire, sentimenti e passioni.
G.R.


Giacomo Ricci, a

rchitetto, professore associato in Tecnologia dell'architettura presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Chieti-Pescara "G. D'Annunzio" dove insegna Progettazione Tecnologica Assistita dal computer.

Ha insegnato a Napoli dal 1972 al 1998

Ha fondato la rivista on line di architettura ArchigraficA.

Ha fatto parte del Comitato scientifico del progettoReMuNa (Rete dei Musei Virtuali di Napoli). Pubblicazioni: Itinerari narrarivi tra realtà e simulazione. La costruzione del Museo virtuale del Fiordo di Furore, Liguori, 2006; Amalfi, Fuore, Ravello. Architettura del paesaggio costiero, Giannini, Napoli, 2007; Frankenstein rigenrato. Discorso sulle macchine intelligenti, Giannini, Napoli, 2007.

PIETRE DI FUOCO

‎"Il cadavere di un uomo, nudo e senza testa, viene trovato nella cappella Sansevero, all’apertura del museo, dal custode don Arturo, e la notizia fa subito il giro della città di Napoli. Da questo incipit parte la storia, che ha per protagonisti il prof. Giuliano De Luca, ordinario di filosofia alla “Federico II” e il suo assistente. Ben presto si capisce che il corpo ritrovato è del preside della Facoltà di Lettere e che tutta l’università di Napoli è coinvolta nel delitto. Da qui la vicenda si muove nella Napoli antica, rispolverando paure, leggende e vecchi fantasmi" da Pietre di fuoco"

(Giacomo Ricci)

18 Maggio INCONTRO 5 sul libro LE SEDUZIONI DEL DESTINO di CLAUDIO SESTIERI

Le seduzioni dell'identità in epoca digitale.

di Rossana Di Poce

Tra le discussioni accese ieri tra gli invitati del Salotto Letterario Antichità Scippa, quella relativa all'identità è stata forse la più suggestiva da sviluppare, almeno per me. Riprendendo le parole di Franz Cerami, digital artist, se il libro del regista Claudio Sestieri ( "Le seduzioni del destino") muove dal piano dell'identità temporale a cavallo tra gli anni Venti (quelli di Lang), degli anni '60 (Il disprezzo di Godard ) e il cinema moderno, cosa ne è dell'identità, per noi che viviamo l'epoca del digitale? E come questa illusione dell'immagine, ci riguarda e seduce tutti? Ci pensavo mentre Gino Malvone suonava al sax la melodia di Blade Runner (1982, dal libro "Il cacciatore di androidi" di P.K.Dick). La creazione dell'androide di Maria, magnificamente ideato da Lang in Metropolis (1926) ha dato il via all'immaginazione della fantascienza : robot, replicanti e androidi vengono tutti da quella suggestione.Per puro caso, ieri sera in tv (digitale) davano Frankestein Junior; in chiave comica (1974) la creatura di Mary Shelley (Frankenstein, o il moderno Prometeo 1818) che conobbe l'esordio cinematografico proprio nel 1931 (James Whale). È probabilmente grazie alla figura del "mostro" espressione della fobia dello sviluppo tecnologico, a fare la fortuna di quel romanzo, proprio perché affonda le sue radici nelle paure umane. La "creatura" Frankestain è l'esempio del diverso che origina terrore: osare la resurrezione. Poco tempo prima, il libro Dracula ( di Bram Stocker 1897 ) aveva incarnato in metafora, la perdita dell'egemonia aristocratica (il sangue-la terra).Creature inumane, diverse, identità altre erano al centro dei temi nella letteratura e nel cinema di quegli anni a cavallo tra la fin de siecle e la Prima Guerrra mondiale. Il mondo stava cambiando e le macchine prendevano spazio. L'identità umana, la sua individualità e il suo camuffamento (anche attraverso i social network) sono la nostra quotidianità. Averne solo paura, è ignorare il fascino che l'alterità ha sempre giocato, mescolata all'illusione della creazione, o forse al suo semplice esercizio nella fantasia. Ma oggi è in parte anche reale, e crea davanti ai nostri occhi l'illusione della finzione più sottile: il digitale, il tre-d e l'immateriale internet, assediano le nostre certezze su ciò che conoscevamo. Ci mettono in crisi, che in cinese è un ideogramma "scritto" con due significati contemporanei: pericolo e opportunità. A voi la scelta.

"Man ha made his match...now it's his problem" (Blade Runner)

(RdP)




Intervista all'autore o su dream Magazine, di Rosaria Pannico






Il cinema, che Magia.

di Mario Scippa


Cinema. Una sola parola per definire sia quel lungo, complesso e articolato, procedimento tecnico e creativo (scrittura, sceneggiatura, costruzione delle scene, riprese, montaggio, ecc ecc) che ci porta dalla parola scritta alla realizzazione di un universo concentrato in un tempo limitato molto breve (un'ora e mezza circa), nel quale ci immergiamo quando assistiamo alla proiezione di un film, e che tante volte continua ad appartenerci per sempre, che anche il luogo, lo spazio fisico nel quale, nel buio, avviene questa immersione.

Cinema, in quanti di noi, nei nostri ricordi, sentendo questa parola, viene evocato tanto una scena di un film, quanto un luogo, a prescindere dal film o dai film visti, ma un luogo dove abbiamo vissuto emozioni?

A Napoli ogni quartiere, fino a qualche anno fa, aveva il suo cinema. Era un po' come una antica piazza, una agorà dove, puntualmente almeno una volta alla settimana, gli abitanti del quartiere lo affollavano.

Ricordo il cinema Gloria, forse la prima multisala a Napoli, nei pressi di piazza Carlo III, il Bolivar, sulle scale che dalle Fontanelle, lato nord della Sanità, arrivavano al quartiere Materdei, e ancora il Santa Lucia, il Fiamma, e poi la grande cava di Tufo (di cui mi sono dimenticato di dire, nell'incontro precedente, che forse è stato l'unico intervento positivo nel riutilizzo di una cava a Napoli, ma oggi comunque in fase di trasformazione, pare in un supermercato o qualcosa del genere) sotto il palazzo Cellammare trasformato in un bellissimo cinema il Metropolitan, senza essere snaturata del suo enorme valore spaziale, e tanti altri.

Ma quello che mi è impresso nella memoria come Cinema è il Felix, in via Arena Sanità, a due passi da dove è nato il principe del cinema comico italiano, Antonio de Curtis, Totò.

Oggi tanti di questi luoghi hanno subito trasformazioni funzionali radicali, alcuni sono diventati supermercati, altri sale bingo, altri parcheggi, e quasi tutti i quartieri di Napoli hanno perso un altro “valore aggiunto” alla qualità della vita, che scade sempre di più a favore della massificazione, pensate alle enormi multisale che sono nate come funghi nei centri commerciali delle periferie tra Napoli e Caserta. Ogni volta che ci vado non riesco a vivere l'emozione del luogo così come la vivevo al Felix.

Mi ricordo che c'era come un copione scritto: era lo spazio e i suoi frequentatori gia uno spettacolo nello spettacolo.

Intanto, forse era un caso, forse era semplice concorrenza, ma quando la Domenica mattina c'era lo spettacolo delle 10.00, si sentivano le campane della vicina Chiesa che sembravano urlare per richiamare l'attenzione.

Mio nonno ci portava, me e i mie cugini, allo spettacolo della Domenica mattina, proprio a quello delle 10.00.

Si entrava, la Maschera era Don Luigi, un omone grosso con i baffi, con lo sguardo sempre crucciato, ma era un buon uomo, ci accompagnava dentro la sala.

Ci sedevamo su quelle poltroncine in legno con i sedili ribaltabili e i bracciuoli consumati.

Ogni volta, appena si abbassavano le luci c'era sempre qualcuno, sembrava sempre la stessa persona ma non ho mai capito chi fosse che puntualmente:

Sccccccccccccccc!

Alberto si alza. Gigino chiama: Anna dov'è?

Gennarinoooooooo, viena cà ce sta nu post!!!

Un urlo scocciato: uè guagliù! assettateve, statéve zitt!

miett' a'pellicola o'stuort'!

Buio, silenzio, poi...

Oscurità interrotta da un fascio di luce. Magia.

Silenzioso rumore, stanco, copre il festoso frastuono.

Il mistero del mistero, sogno, foro luminoso

che svela l'infinito.

Risate, schiamazzi, lacrime.

Dal vicolo oscuro, ancora, suono di campane, la luce.

Famiglie, anziani, giovani e donne. Occhi brillanti.

La mano del bimbo stringe quella del nonno

felice, meravigliato, inizia a sognare.

Altra giovane mano cerca, altra giovane mano aspetta.

L'istante!

Sussurri, commenti, risate,visi arrossati,

mani tremanti si stringono nel buio, fascio di luce

tremolante, svela la vita, sognata e vissuta.

Felix!

Angolo di paradiso, negato nell'inferno.

M.S.© copyright2011

4 MAGGIO Intervento 4 CONVERSAZIONE SUL LIBRO GIALLO TUFO di FRANCESCO ESCALONA

La parola Tufo


Buonasera a tutti.

Ho avuto il libro di Escalona tra le mani appena l'altra sera. Come mia abitudine incomincio a sfogliarlo e sfogliandolo, velocemente, pagina per pagina, incomincio a svolgere una veloce lettura, giusto per avere una idea di cosa tratta l'autore nel libro e di come lo tratta.

La prima idea che mi sono fatto è quello di un libro costruito su vari livelli di lettura, strutturati su una storia centrale, un giallo, il ritrovamento del cadavere di un uomo. Non di un uomo qualsiasi, ma di un personaggio molto attivo nella zona dei Campi Flegrei nella ricerca dei resti archeologici e la loro tutela e conservazione.

I Campi Flegrei, lo sfondo della storia che fin dalle prime pagine non è un semplice sfondo ma il centro di tutta la narrazione, il vero protagonista è quel territorio ricco di storia, di mito, di leggende, di natura, di tradizioni, di sapori di odori.

In tutto il libro ognuno di questi elementi caratterizzanti questo territorio sono descritti minuziosamente in ogni piccolo e apparentemente insignificante dettaglio, fino a condurre il lettore in un viaggio appassionante, dove il ritmo è dato sempre dalla misura del tempo che si usa in un giallo, quindi accelerato e allo stesso momento ogni singola scena arricchita di tutti gli elementi di rimando descrittivo quasi fotografico che solo la lentezza e la dilatazione temporale può dare, ad ogni passaggio. Un vecchio motto latino diceva Festina Lenti (affrettati lentamente) e se dovessi definire il tempo di questo libro dovrei usare una espressione del tipo : è un tempo terribilmente veloce nella sua lentezza.

Ma questa sera non voglio parlare del libro, perché c'è chi più di me potrà dire molte cose rispetto a questo testo, dallo stesso autore, che vi ricordo è stato anche presidente del Parco Regionale dei Campi Flegrei, architetto, alla dottoressa Di Poce, che è entrata nel testo svolgendo una lettura sulla mitologia di quei luoghi raccontati da Escalona dove al centro c'è un giallo nel giallo, la ricerca di Dicearchia, il governo dei giusti, l'antica città greca fondata dai pitagorici e che si troverebbe al centro di questo magnifico territorio, sotto il rione terra a Pozzuoli.

Detto ciò, questa sera mi limiterò a fare delle riflessioni su una sola parola di questo libro che, a mio avviso, è da considerare come il vero anello tra i campi Flegrei e la città di Napoli. La parola Tufo

Per me, napoletano, architetto con una formazione culturale da urbanista, la parola tufo smette di essere un rimando semantico ad un semplice materiale da costruzione e invade il mondo del simbolo e della memoria che rimanda direttamente alla città, a Napoli.

Tutta la città di Napoli è fondata su una conformazione morfologica collinare, costituita da enormi banchi di tufo, che si affaccia sul mare.

Appena leggo o sento la parola tufo, è più forte di me, ma si formano in me immagini che rimandano alla “forma” della città in relazione alla luce.

-Da un lato, la parola tufo evoca in me l'immagine di strade e vicoli che si intersecano su antichi tracciati ortogonali, dove la luce del sole fa fatica ad entrare e la pietra sembra impastata di un umido atavico, e sui i quali tracciati, attraverso il materiale, appunto il tufo, lavorato nei secoli, stratificatosi verticalmente, si può leggere la storia della città;-Da un altro lato, l'immagine di grandi costruzioni che sul territorio dialogano tra loro a chilometri di distanza, Ovvero, l'ultimo vero esempio di intervento urbanistico a Napoli dove si interviene a scala territoriale e si mettono in relazione grandi costruzioni tra di loro e l'ambiente (palazzo Reale, Capodimonte, La reggia di Portici, Il Vesuvio, le colline, il golfo ecc.);-Infine, da un altro lato ancora, evoca in me, la città senza luce, quella di sotto, quell'enorme sistema di cavità da cui nei secoli è stata estratta, per sottrazione, la materia da lavorare per realizzare la città.Sì! quando penso al tufo, al materiale con cui è stata costruita Napoli, non posso non pensare alla città di sotto, una città costruita per sottrazione di peso e che, a mio avviso, ha influito tanto sul carattere complessivo della città tutta.

    Questa sera Escalona ci presenta il suo libro, Giallo Tufo. Un giallo per raccontarci dei Campi Flegrei, come ho detto, terra di mito e di storia. I Campi Flegrei

    Un luogo fisico dove si materializzano davanti ai nostri occhi i simboli universali della vita espressi nei quattro elementi fondamentali: Acqua, Fuoco, Aria e Terra.

    Napoli è una colonia cumana è stato detto, e in quel territorio raccontato nel libro c'è tutta Napoli, ci sono le sue vere origini. Prima tra tutte la forma dell'architettura tagliata nella roccia che ritroviamo nelle cavità, nella città di sotto. Pensate all'antro della Sibilla, quella sezione trapezoidale è stata il modello per tutte le cavità sotterranee di Napoli, da cui è stato ricavato la materia per costruire la città, e allo stesso tempo ricavare degli ambienti di una bellezza straordinaria.

    La città senza luce.

    Io sono originario del quartiere Sanità, nei miei ricordi di bambino ci sono i cosiddetti “ricoveri”, enormi cavità sotto ogni palazzo del vicolo, spesso comunicanti tra loro. Ne sentivo parlare da bambino di questi luoghi, dove in tempo di guerra la popolazione si riparava dai bombardamenti. Da bambino ho ascoltato tanti racconti su questi luoghi, racconti di storie vissute o semplicemente inventate.

    Nell'immaginario mio, di bambino incantato da quelle storie, quei luoghi erano luoghi magici, li vedevo nella mia mente quasi come se fossero enormi basiliche scavate nella collina, dove vivevano personaggi strani e si svolgevano chissà quali riti. Penso al “ricovero” sotto al mio palazzo del vico Lammatari, dove si scendeva a due livelli sotto, e sotto si diceva che scorreva un corso d'acqua ed era addirittura ormeggiata una barca, e si diceva che quel corso d'acqua arrivava fino a Santa Lucia, al mare, “for' a Caracciolo”. Io immaginavo che la sotto vivesse un omino traghettatore, una sorta di Caronte tassista che non aveva mai visto la luce del sole.

    Ricordo pure il cosiddetto “o' cavone a ret'o' Mont' de Cristallini”. Era una grandissima cavità scavata sotto la collina di Capodimonte, sul lato Nord-Est del quartiere Stella, dove da ragazzino mi inoltravo insieme ai miei amici.

    Attraverso dei sentieri sotterranei potevamo raggiungere un cunicolo in salita quasi verticale che ci portava direttamente nel Bosco Di Capodimonte. Ricordo la luce che filtrava da quel cunicolo, da lontano sembrava un faro che proiettava il fascio sulla parete, e tutta la cavità era illuminata da quella luce riflessa. Ricordo che a ridosso della bocca di apertura di questo cavone, c'erano tante piccole aperture, tutte rifinite con infissi colorati e pareti piastrellate, con improbabili terrazzini che si affacciavano sullo slargo e ognuna con una propria scala che sembrava ricavata anch'essa nella montagna. Erano case, scavate direttamente sulla collina di tufo. In una di quelle case abitava un mio caro amico, Gerry o' niron' (perché aveva la pelle di un colorito scuro), La sua casa era costituita da due piccoli ambienti, uno dentro l'altro, e l'unica apertura era quella da dove entravo, quel foro nella montagna con il terrazzino davanti. Ricordo una particolare sensazione che avvertivo ogni volta che l'andavo a trovare, una sensazione scaturita dall'odore della pietra: un odore acre, forte, riconoscibile tra tanti, era l'odore del tufo.

    Crescendo sono andato a ricercarli quei luoghi e mi sono accorto che questi luoghi della materia, nati per una questione pratica (reperire materiale da costruzione) così come sono stati realizzati, nel corso dei secoli, per la loro forma, la luce, il taglio delle pareti, per quei grandi spazi che si potevano raggiungere solo da piccoli cunicoli e che si aprivano davanti agli occhi improvvisamente, avevano quel carattere che io immaginavo da sempre:

    Queste cavità, oltre ad essere degli spazi fisici di una bellezza straordinaria sono anche

    Invece, negli ultimi decenni questi luoghi sono stati abbandonati a se stessi, come luoghi di risulta, usati dai malavitosi, e penso a tutte quelle cavità del vallone dello Scudillo e delle Fontanelle, dove all'interno delle quali, per decenni ne hanno fatto da padroni, svolgendo i loro loschi affari e nascondendo casse di sigarette, auto rubate, armi, ecc ecc.

    Poi la consapevolezza da parte della politica amministrativa della città che potevano essere considerati delle risorse. Ma il più delle volte sono state politiche mosse da una mala cultura vestita di nuovo, che con la scusa della rivalutazione e del riutilizzo per il bene della collettività, il vero obiettivo è sembrato essere quello a fini speculativi. E con questo obiettivo hanno sacrificato, oltraggiato e mortificato la bellezza di questi luoghi. Non bisogna andare molto lontano da qui per avere un esempio di quello che sto dicendo, penso alle cavità di Pizzofalcone, qua a due passi da noi, l'ultimo vanto di Napoli, un parcheggio a 5 stelle. Uno spazio straordinario e di alto potere evocativo, dove la sensazione che si provava entrando era la stessa che si prova entrando in una spettacolare cattedrale Gotica. La luce, era meravigliosa in particolare di pomeriggio, un fascio cadeva prepotentemente dall'alto. In virtù della necessità e del riutilizzo si è completamente distrutta questa meraviglia per farla diventare un parcheggio, ma complici dei politici di queste scelte sono anche gli storici dell'arte, sovrintendenze e tutti gli organi competenti, nessuno di loro ha fatto niente affinché non si svolgesse questo scempio.

    A tal proposito vi voglio leggere una frase dal libro:

    da: Giallo Tufo di F. Escalona

    Giovedì 29 maggio 2009, ore 16.00

    Parla Tobia, giovane archeologo che sta accompagnando il protagonista del libro e Margherita, sotto il rione Terra sulle traccie di Dicerchia, e dice:

    “al giorno d'oggi, comunque, e in questo ha proprio ragione Margherita, sopratutto da queste parti, si sottovaluta troppo quanto possa contare l'aspetto culturale e quello del senso di appartenenza di un popolo ad un passato nobile, per condividere e realizzare grande idee e grandi progetti; programmi politici ambiziosi. Per sfuggire ad egoismi dilaganti e ad una incultura imperante tesa solo al raggiungimento di fini personali e di corto respiro.”

    Questa frase mi ha fatto venire in mente un'altra frase in una intervista a Massimo Cacciari fatta da Claudio Velardi, pubblicata in Città Porosa. Era il 1992 ed è attualissima:

    La mia città, il mio paese non può essere massacrato da voi, camorristi o dissennati politici che siate! Il mio paese ha questa memoria, ha queste straordinarie potenzialità, ha questo destino, ha questo significato simbolico, e voi non potete e non dovete impadronirvene.... VADE RETRO SATANA, non potete massacrarmi Venezia, non potete massacrarmi Napoli!”.

    Ecco, la povertà culturale di chi ci governa, che sembra non voler capire la vera potenzialità di Napoli, alla pari della speculazione dei malviventi che per anni hanno usato le cave, è quella di considerare questi luoghi non tanto per le loro intrinseche potenzialità legate alla memoria, individuale e collettiva, da salvaguardare e custodire, ma come luoghi di risulta, vuoti da riempire.

    Una povertà culturale che solo un vero accorpamento tra tutte le forze culturali, anche politicamente trasversali, potrebbe e dovrebbe combattere .

    Questi descritti nel libro e quelli di Napoli che immediatamente sono collegati, sono i luoghi del tufo, della nostra materia.

    La parola Materia ha come radice etimologica Mater, ovvero la stessa radice di Madre.

    Profanare questi luoghi con progetti aberranti che li snaturano è come profanare i luoghi della Madre di ognuno di noi.

    M.S.© copyright2011


    Materia

    Mater

    Madre.

    Pietra azzurra, sconfinato deserto, anima mia

    scheggia di vetro nel vento, viva e calpestata.

    Madre di tutte le madri, granello, vaghi nell'infinito

    e in una clessidra scivoli via. Fuoco, è il tuo cuore.

    Efesto forgia spade, gioielli, reti e tranelli, per te son feste.

    Affondano nel tempo le radici dell'ulivo che apre le sue ali al vento.


    Piume per chiome, fresche le tue acque, dolci

    erano i tuoi frutti, poi demoni, divoratori di sabbia,

    il nulla. Il tuo mostro. Il tuo seno, un morbido tendone

    arancione, dove il bimbo dorme e dall'etere invisibile

    la più violenta delle ninna nanna. Finta, umida selva,

    tre scimmie ed un leone piangono, occhi lucenti

    del caimano in agonia.


    Vola il gabbiano, tra ciò che risulta vano e sporco.

    Era Giallo, Profumo di limone.

    Granello nell'universo, la tua luce è stanca.

    Sei Azzurra, da lontano, scura in te.

    Tu hai la luna ed io la fortuna.

    Geometrica è la sua danza, nell'infinito è sogno.


    Ed io Abbraccio, da lontano, le Verità! Scritte

    dai tempi dei tempi, in tutte le lingue. Ora bruciano

    oltre le porte dell'inferno.

    Le cantava il poeta!

    Una lacrima solca il volto del guardiano della memoria.

    Armature svuotate, principi e mercenari, affamati!

    Feudi e castelli bruciano, nel campo di viole.


    Oro, argento, ocra, bruni, gialli, rossi e tutti i colori

    inghiottiti dal nero, il fumo t'avvolge. La spada,

    del preferito figlio tuo, conficcata nel cuore tuo di madre.

    Violenta tempesta,

    azzurra camicia trasparente, leggera, stracciata,

    resiste ancora.


    Amore di madre, tutto perdona.


    M.S.© copyright2011

    VENERDI 22 APRILE La meraviglia


    CONVERSAZIONE SUL LIBRO DI NUNZIA MESKALILA COPPOLA
    >

    Che meraviglia, sentire parlare di meraviglia in questo luogo.
    Un luogo dove ho vissuto momenti della mia infanzia meravigliandomi ogni giorno.

    -Nella prima serata di presentazione del salotto ho detto della necessità vitale della cultura, paragonandola alla necessaria funzione vitale dell'acqua per l'uomo, e ho detto della mia personale esigenza di farla entrare a contatto con il luogo deputato al mio lavoro.

    -Nella seconda serata ho descritto lo scrittore come colui che si immerge nel mare memoria, come un archeologo subacqueo alla ricerca di frammenti. Per poi ridare, ad essi, ovvero a qualcosa di vissuto o semplicemente sognato, una nuova forma.

    Una nuova forma a volte è una forma inattesa.
    Spesso le cose inattese suscitano in noi quel sentimento, che è anche contrastante, che chiamiamo Meraviglia.

    Questo luogo, forme nuove inattese, la meraviglia.
    Immergendomi nel mio mare non posso non ricordare che dove ci troviamo adesso è per me un luogo particolare e significativo. E' il luogo dove nella mia infanzia, in silenzio guardando le mani di mio padre mentre scolpiva il legno, ogni giorno ho vissuto la meraviglia.
    Sì! ho vissuto la meraviglia ogni volta che dal pezzo di legno, con un semplice colpo di scappello, lui abbozzava, ed io intravedevo, una forma. Ogni volta che si ripeteva quel gesto io vivevo quel sentimento improvviso, di viva sorpresa, la meravigliosa avventura di assistere alla creazione di una forma nuova, che nasceva dal niente.

    Erano momenti magici, straordinari, vissuti nella ordinarietà quotidiana.
    Oscar Wilde diceva che la vita è un brutto quarto d'ora composto da attimi squisiti.
    Vivere con meraviglia quegli attimi squisiti della vita cui fa riferirimento Wilde ti fa pensare, riflettere, e anche creare, inventare.
    La meraviglia, da un lato è il piacere massimo che si può provare dinnanzi a qualcosa di inatteso; dall'altro lato, può essere anche qualcosa di simile alla paura. Infatti ce lo dice anche l'origine della parola: meraviglia ha origine dal termine greco thauma che, letteralmente, significa l´orrore provato dinanzi a uno spettacolo angosciante.
    Ma di queste cose in modo più particolareggiato vi parleranno gli ospiti e Di Poce

    A me interessa sottolineare il fatto che il sentimento di meraviglia, nel suo insieme, provoca in noi qualcosa che somiglia alla paura, o meglio ci fa essere in uno stato psico-fisico che mette i nostri sensi in allerta, nella condizione di recepire qualcosa di inatteso e di carpirne tutte le sfumature, per poi reagire.

    In quest'ottica la meraviglia quindi è quel turbamento creativo dal quale sono nate la filosofia, la mitologia, la religione, la scienza, le arti e, sopratutto, la poesia.
    Poesia, in greco "Poièsis", significa inventare, comporre, ci accorgiamo che, nella poesia, la creazione e l'invenzione nascono sempre dalla volontà di raccontare ciò che agli altri sembra essere una cosa ordinaria ma che dal poeta è stata vissuta attraverso la meraviglia come qualcosa di assolutamente straordinario, indescrivibile con il linguaggio comune.

    Che meraviglia la meraviglia. Platone disse che è la messaggera divina, che unisce il cielo alla terra. La descrive come una fanciulla dai piedi veloci come il vento e con ali dipinte di tutti e sette i colori dell'arcobaleno. Io, ho sempre amato meravigliarmi, e vivere tutte le sfumature che quella sensazione provoca. Sfumature che ho sempre tentato di descriverle, prima con la fotografia poi con la parola scritta, in particolare con la poesia.

    Se avete un po' di pazienza mi piacerebbe leggervi un mio piccolissimo scritto che racconta di un fatto ordinario vissuto come una cosa straordinaria attraverso la meraviglia.
    L'ho scritto tanti anni fa, ero un giovane studente al liceo artistico di Napoli.
    Mi trovavo a Milano, accompagnai mio padre, intagliatore in legno prima, raffinato antiquario poi, in un suo giro per case d'asta.
    Amavo Michelangelo. Sapevo che nel castello Sforzesco a Milano c'era una sua opera. L'ultima sua opera scolpita, trovata nel suo studio dopo la sua morte.
    Il gruppo è costituito da parti condotte a termine, come il braccio destro di Cristo, e da parti non finite, come il torso del Salvatore schiacciato contro il corpo della Vergine quasi a formare un tutt'uno, con una grande e forte tensione emotiva.
    Nell'ultimo periodo della sua vita Michelangelo era ossessionato dai temi religiosi e scolpì due, forse tre statue della Pietà che avrebbe voluto collocare sulla sua tomba, ma non fu mai soddisfatto dell'opera, tanto che vennero tutte interrotte .
    Questo è quanto sapevo dai libri di storia dell'arte. Non ci misi molto a convincere mio padre. Disertammo l'asta e ci dirigemmo, insieme al castello.
    Entrammo, in silenzio. La luce era tenue.
    Il cuore mi batteva forte. Lui, mi guardava.
    E la statua era di fronte. La luce, scivolava
    sul bianco poroso del marmo trattenendosi
    e riflettendosi qua e la. Il rumore dei nostri passi
    lenti da lontano. Guardata di lato, appariva curva in avanti;
    uno slancio verso l'alto , il vuoto.
    Mentre ci avvicinavamo I nostri sguardi
    scivolavano lungo quella materia bianca
    plasmata cinquecento anni prima dalle mani
    di un genio. Pietà Rondanini. Essenzialità
    nella forma, pathos, silenzio, urlo. Pesantezza
    della materia abbandonata dalla leggerezza
    dell'anima, sprofonda.
    Sostenuta dalla forza disumana, volontà di rialzarla
    senza sforzo.

    Il Volto, che si perde nel buio dell'informe ritornando materia
    qual'era. Le Gambe. Colonne che non reggono il peso del corpo
    si piegano lasciandolo cadere nel vuoto assoluto.
    Lo sguardo di lei fissa il vuoto, di li a poco lo inghiottirà
    la mano lo tiene, stretto, la materia si fonde,
    in quel punto i due corpi diventano un unico corpo.
    Ma i muscoli sprofondano inesorabilmente, l'anima si eleva
    nell'universo.

    la materia prima si era arricchita di spirito e poi dallo spirito
    stava per essere abbandonata.
    La toccai furtivamente, l'accarezzavo
    mi accorsi di passare la mia mano sulla mano di mio padre.



    Con tatto.

    Dall'inizio del tempo, in silenzio,
    dove inizia l'intorno, toccò.
    Nella sua mente le parole del mondo
    senza alcun suono, musica dentro.
    Ossuta, forte, nervosa, tozza.

    Polso.
    Lama tagliente, odore di tiglio.
    Forma, abbozzata in un colpo, dal niente,
    dentro di sé. Poi inerte rende la fine.
    Maestro d'amore e passione,
    tu guidi ed io seguo. Nel mondo, nel tempo.

    Con tatto era il tuo gesto. Superfici antiche
    ruvide, lisce, calde, fredde, scolpite dal tempo
    storie vissute nelle pieghe della materia
    contatto fugace, sensuale, naturale, vivo.
    L'incanto: di vita gli oggetti.

    Ero un uccello sazio con il suo peso
    sulla mia spalla.
    Una carezza, delicata si alza. Lacrima.
    Leggero tremore, è viva, ma spenta.
    Musica muta.
    Ormai cieca per sempre.
    M.S.© copyright2011

    15 Aprile 2011 LA SCRITTURA COME IMMERSIONE NEL MARE MEMORIA Conversazione sul libro di Brunella Brizio: Bucaneve


    LA SCRITTURA COME IMMERSIONE NEL MARE MEMORIA

    Il giorno dell'inaugurazione di questo salotto, nel mio breve intervento sono partito da quella frase del ministro -“Con la cultura non si mangia” - per ricordare che la cultura è essa stessa un nutrimento, necessario per la mente e per lo spirito. Un nutrimento necessario come lo è l'acqua per il corpo.
    E ho cercato, anche con qualche acrobazia, di definire la cultura in modo analogo a come si definisce l'acqua. Sottolineando alcune caratteristiche in comune, come il carattere di ciclicità e il modo di spostarsi capillarmente sulla terra.
    Cultura-Acqua.
    Il mio intervento di presentazione del salotto dell'altra sera, si è chiuso con la lettura di alcuni miei versi. Versi che sono stati scritti effettuando un lavoro di sottrazione sulla personalità dei personaggi del mio libro e sulla mia stessa personalità, fino a giungere a quelli che io credo siano gli elementi semplici in comune che io ho con i personaggi che ho costruito nel libro. Alcuni di tali elementi che sono emersi in questo lavoro di sottrazione hanno, per me, la presunzione di essere universali, in particolare per chi scrive.
    In particolare all'inizio di quei versi ho detto che dentro di me, ma volevo dire dentro ogni persona, non c'è niente di speciale, c'è la vita, quella vissuta e quella sognata o desiderata.
    E poi, nei versi successivi ho aggiunto coppie di elementi contrapposti, in particolare il bene e il male, il fuoco e l'acqua. E l'acqua l'ho definita puzzolente e profumata come il Mare.
    Questa sera è ancora l'elemento acqua a far da padrone delle mie parole.

    Il Mare. Ovvero quella enorme distesa di acqua che, evocando un paradosso di zenoniana memoria, sembra infinita ma invece è finita: il mare, come la memoria.

    Cultura-acqua. Memoria-Mare.
    In questa avventura, ho avuto il piacere di conoscere Rossana Di Poce. Archeologa. E attraverso le nostre conversazioni ho avuto il piacere di scoprire qualcosa di cui avevo vagamente sentore: la vita di uno scrittore è come quella di un archeologo.
    In particolare un archeologo subacqueo. Infatti, ogni volta che inizia a scrivere, uno scrittore fa una sua personale immersione nell'oceano della memoria alla ricerca di frammenti per costruire o ricostruire le sue storie, basandosi a volte su alcuni piccoli indizi, altre volte sul solo istinto.
    Archeologo. Scrittore. Reperti. Memoria. Mare.
    Riflettendo su queste parole mi è venuto in mente un bellissimo articolo di Margaret Yourcenar. Il Tempo grande scultore. Quando parla di sculture ritrovate in fondo la mare, che riemergono avvolte da una meravigliosa patina, consumate ed erose, che vagamente rimandano a quello che aveva in mente lo scultore quando le realizzò.
    Le sculture della Yourcenar mi piace viverle come metafora dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, delle nostre esperienze, sogni, desideri, paure, amori, dove la risultante del loro prodotto esponenziale non è altro che la nostra esistenza.
    Bene, lo scrittore, ogni volta che si trova davanti alla pagina bianca, non fa altro che immergersi in apnea nel mare della sua memoria per far risalire a galla questi frammenti e costruire intorno a loro una forma che, a volte quando li trova intatti, ripuliti da tutto ciò che nel tempo si è attaccato a loro, ripropone la forma originale, altre volte sono solo frammenti, insignificanti per altri ma preziosi per chi in quei frammenti rintraccia qualcosa e diventano altro che appartengono solo al mondo della parola. Appartengono a quegli universi infiniti, tutti paralleli al nostro, nei quali vivono personaggi, storie, fatti, città, case, cantine, amori, omicidi, tradimenti, guerre, mostri, fate, gnomi, vite comuni o straordinarie.
    Brunella Brizio, ci presenta stasera Bucaneve, ovvero cinque sue personali immersioni, dove ha riportato a galla cinque, preziosi e delicati, frammenti che di raccontano di un gruppo di amiche e la vita che le attraversa, allo stesso tempo leggera e crudele, con tutti i suoi lati in ombre e in luce. Mi piace pensare a Brunella, ogni volta che riemerge da quel suo oceano mentre ripulisce, come un'abile e consumata archeologa, quei suoi frammenti ridando ad ognuno di loro una nuova e singolare esistenza.
    La metafora di questa nuova esistenza è nel titolo, “Bucaneve” il primo fiore che sboccia nel ghiaccio e l'arrivo della primavera dopo un'interminabile inverno.
    Per poi vivere una vacanza nel sole, una pausa da figli-mariti-lavori-pensie
    ri che segna il confine, tra il passato (i frammenti riemersi) e il futuro (la nuova forma possibile).
    M.S.© copyright2011

    2 APRILE 2011 SERATA INAUGURALE, L'IDEA POETICA COME SOTTRAZIONE DI PESO Conversazione sul libro di Mario Scippa, L'ANTIQUARIO E IL PROFESSORE.



    L'idea del salotto nasce da alcune riflessioni su una frase pronunciata da un nostro ministro un po' di tempo fa. Una frase, che insieme ad una serie di provvedimenti legislativi, ha smosso il mondo della cultura in Italia.
    I politici riflettono sui provvedimenti legislativi, io, da semplice intellettuale, attento alle parole e ai linguaggi, rifletto sulla frase. “Con la cultura non si mangia” disse il ministro.
    Mettiamo che è vero, che con la cultura non c'è un ritorno economico diretto tale da soddisfare i bisogni primari dell'uomo come quello del cibo. Però anche se fosse così, ci dimentichiamo che la cultura è già, essa stessa, un nutrimento. La cultura è un nutrimento necessario per la mente e per lo spirito. Un nutrimento necessario come lo è l'acqua per il corpo.
    Cultura, acqua. Sì! La cultura è come l'acqua!
    La cultura ha la stessa caratteristica di ciclicità dell'acqua. Attraversa nel tempo, prendendone anche la forma, gli organismi, nutrendoli e arricchendoli per poi rilasciarli arricchita essa stessa di qualcosa dell'organismo che la ha ospitata.
    E in questi passaggi ciclici, come l'acqua, la cultura contiene in sé la memoria del mondo e si sposta capillarmente all'interno di vasi comunicanti tra loro.
    Questo salotto, non è altro che l'attivazione di uno di quei piccolissimi vasi comunicanti per far fluire liberamente cultura in un luogo che, difficilmente ad essa viene associata: un luogo deputato al commercio, un negozio.
    L'incontro tra due diversi mondi: commercio-cultura. Un incontro che ha per finalità ultima quella di collegare energie ed immettere, in questo piccolo vaso comunicante, sinergie diverse ma condivise da chi come noi pensa che la cultura è indispensabile anche per dar vita a nuove idee che possono nutrire il corpo.
    Il salotto, quindi come rapporto tra uno spazio dedicato al commercio e lo spazio mentale dedicato alla parola scritta.
    A questo punto sembra essere inevitabile non accennare al mio libro L'ANTIQUARIO E IL PROFESSORE. Infatti il salotto altro non è che la trasposizione spaziale dell'idea espressa nel libro.
    Nel libro i due personaggi si incontrano intorno ad un oggetto che nella loro mente, alchemicamente, si trasforma in una metafora dell'amore e del tempo. Il loro più che nella dimensione commerciale è un incontro che si svolge in una dimensione onirica, intorno ad una poesia.
    Il passaggio dal libro al salotto mi ha fatto riflettere su alcuni concetti. Cultura. Acqua. Memoria. Vasi comunicanti. Una rete capillare di piccoli vasi per la condivisione della memoria, dei sogni, dei bisogni, delle illusioni, della trasformazione delle esperienze e delle emozioni in metafora, in poesia. Ovvero , tutti quegli elementi che mi riconducono al web, ad internet, e in particolare ai socialnetwork, nei quali da qualche anno sono abbastanza frequente con migliaia di contatti. Un luogo, virtuale, dove ho incontrato tantissime persone, attente e sensibili, alla parola scritta.
    Scrivere.
    Scrivere è una malattia e i miei amici scrittori, presenti qua stasera, sanno perfettamante cosa voglio dire. Come sanno anche che la medicina per questa malattia è la condivisione di ciò che si è scritto.
    Io questa medicina l'ho trovata subito dopo che ho pubblicato il mio libro su internet, su facebook.
    Oltre a pubblicizzarlo, attraverso la pubblicazione di link, video, citazioni, poesie e quant'altro su facebook si può pubblicare, davo sempre degli spunti di riflessione che rimandavano ogni volta ad argomenti trattati nel libro.
    I personaggi costruiti nel libro partono da alcuni riferimenti fortemente autobiografici, per poi, nello sviluppo della storia, diventare ognuno di loro autonomi con una loro distinta personalità.
    Questa cosa deve essere stata percepita dai miei contatti in rete, al tal punto che molti di loro dichiaravano, confidenzialmente, di conoscermi profondamente e che sarebbero stati ancora più felici di conoscermi di più e sapere cosa io avessi dentro oltre quello che già loro conoscevano.
    Mi arrivavano tante domande, in chatt, per e-mail e tutte quante era in pratica riconducibili ad un'unica sola domanda: “Ma tu cos'hai dentro?”
    Volevo rispondere ad ognuno di quei contatti, ma non lo feci. Non lo feci perchè rispondere in maniera diretta e istantanea era per me un po' come parlare, e io, come disse Calvino, scrivo perché non so parlare.
    Allora decisi di scrivere un piccolo testoper rispondere a quella domanda. Doveva essere un testo che doveva mettere in luce in poche e chiare parole, quegli elementi in comune tra me e i personaggi del mio libro. Una sorta di sottrazione, di sgrossatura della complessità mia personalità e quella dei personaggi del libro, fino a far apparire chiaramente quali erano quei punti in comune, intorno ai quali erano stati costruiti quei personaggi del libro.
    Quegli elementi semplici, ripuliti di tutto, erano quelli che profondamente mi appartenevano. Dovevo scegliere il linguaggio e la forma per esprimerli. Siccome io sono profondamente napoletano, e il mio linguaggio è profondamente napoletano, mi venne naturale scrivere quei piccoli versi in napoletano.
    La domanda era: Ma tu cos'hai dentro?


    Chell'cà teng'à dint'.

    À dint'à me io nun teng'nient.
    Nient'é speciale.
    Niènt'é cchiù e quanto tu putiss' ammaginar'é mé.

    Dint'é mé teng'solo chéllà cà'tenan à'dinto tutt'quant.
    À Vita!
    Chéllà passata e chellà c'addà ancora venì.

    À dint' tengo
    ò 'bben'è ò male.
    O' Fuoco e l'acqua
    Sì!
    Puzzulente e prufumato.
    O' mare!
    L'addore de' limone.

    Teng pur'è facce dà gente.
    Comm'à chillu cuoll ruoss jè ricchini e donnà Giusuppina à Pezzecàt.

    Teng pure à luce
    cà sciuléa coppè é mur e chillu vico à do sò nato.
    O' vico Lammataro',
    nu' vico stritt'è luongo e vasci'à Sanità.

    A dint' teng chella cèra.
    Era e don' Michele Savarese!
    n'omm ca faticava che suonn.
    Scennev tutt' é juorn cu chella machina fotografica.
    Diceva ca chella che le passava sott'all'uocchie era a Vita!
    Era a Vita! Diceva,
    e nun' za puteva fa passà accussì!

    S'era mis n'capa che la doveva fermare!
    È dall, è dall, ca nu juorn, abbasci'à litoranea,
    annanz'à chelli sei criatur,
    a vita soja, ò veramente se fermai.

    A' dint a me teng' e Mane.
    E mane'é patem'!
    E' Mane, e chill'omm piccirill,
    ca, da' matin'a' sera, steva chìato 'ncopp'ò scann'.
    È che se fidav'é fà, cu chellì mane: 'ntagliav ò legno!
    A me, à quent'er'criaturo, mi piacev sempe dé guardà.
    Mentre faticav', me parlav',
    sbruvignanem tutt'é mister' dò polzo e dò scarpiéll .
    Ah! Chellì'man, che bellì'man!
    Nu brutt'juòrne nà fetent'é malatìa cé ll'hà ciungàt!

    À dint'à mè teng'à Pàur!
    Chella nuttata! He! é chi si scord'cchiù!
    Tenev'à pàur'è rommì'dà sulo dinto ò lettin.
    Pàtemo m'aizaje 'ppe ll'arià
    dicett' cà si nu'me passav', m'jettav' accopp'àbbascio.
    Mamma mia chella'nuttat!
    Me facett'luvà o' viziò e fujì dint'ò lietto suoje.
    Ch'paur ca me mettett!
    Nunn'ò guardaje dint'all'uocchié pé 'nà semmana sana.

    À dint' teng'ò primm'ammor.
    Ma è natur!
    (Mò vuless proprio vedè chi è ca miezz a vuje nunn'o ten cchiù)
    Còsa comune!
    A me, senz'à fà mal'à nisciun, ogni tant
    (quant'men mé l'aspett)
    sàglie a galla!
    Comm'è l'uocchije dé figljè meje
    o chill'dà mammà'llor.
    L'uocchie da' femmena cà mò voglio tanto ben'assaje!

    À verità è ca dint é me
    ce sta nà strana'pucundria.
    À viv'è à cerc rerenn'miez a 'ggentè!
    E guarde dint'alluocchj'è
    (zittu, zitt')
    nun mé faccio mai fujì nient.

    À dint'à mé c'è stann cose comme 'ttante,
    comun'à tuttì.
    Ma, ch'àrraccontàt, cu'à parola giusta,
    paran'cose prezios'è rar.

    M.S.© copyright2011 MCN :: E8XYH-RALLM-6AAKK