venerdì 10 giugno 2011

CHE SENSO HA LA POESIA?

Durante la serata della presentazione del libro PIETRE DI FUOCO di Giacomo Ricci
Una parte dell'intervento di Mario Scippa sul senso della poesia nella rappresentazione di ciò che è intorno a noi.



INTERVENTO 6

al SALOTTO LETTERARIO ANTICHITA' SCIPPA


CHE SENSO HA LA POESIA?

Spunti di riflessione da una lettura di Pietre di Fuoco

di Mario Scippa


Forse la mia lettura di questo libro è stata influenzata dalla figura professionale dell'autore, che conosco come docente della facoltà di architettura e, come abile disegnatore. Forse! ma, mentre leggevo, era come scorrere con gli occhi uno spaccato assonometrico di un pezzo della città di Napoli.

Sì! Realizzato con la necessità di usare un altro strumento di rappresentazione, uno strumento potente, ricco di potenzialità espressive che mette in campo l'immaginazione di chi lo realizza e di chi lo fruisce: la parola.

La forza e la potenza della parola,

Tantissimi grandi autori hanno del secolo scorso hanno usato felicemente la parola come strumento di rappresentazione della città di Napoli. E in questo libro sono spesso richiamati.

Infatti le atmosfere evocate mi rimandano alla mente le immagini disegnate da Giuseppe Marotta, poi la Napoli di Eduardo, ma, Ricci di Eduardo richiama non la Napoli oleografica di chi vive nella zona bella di Napoli e racconta quella popolare, ma quella intellettuale, raffinata, quella simbolica, che partendo dalla descrizione della realtà, così come è, arriva ad una rappresentazione surreale, metafisica, onirica, della città, quella di Voci di Dentro o di Questi fantasmi, per intenderci, che tra l'altro sono anche opere esplicitamente citate dall'autore.

Ma più di tutti sembra esserci tanto Salvatore Di Giacomo nella costruzione della struttura del libro: quell’atmosfera leggera, disincantata, effimera, che non sai se è seria o giocosa, fatta di colpi di scena, costruita sull'imprevedibile, in particolare quando descrive Palazzo Sansevero.

Un bel lavoro quello di Giacomo Ricci, che contribuisce, a mio avviso, a tracciare i confini di un ulteriore tassello per la composizione di quel complesso mosaico che, un altro importante autore che ha dedicato tantissimi suoi scritti alla rappresentazione di pezzi di città, La Capria, definisce napoletanità, ovvero quel valore della nostra città da salvaguardare distinguendolo nettamente dal clichè oleografico della napoletaneria. Caratterizzata anche dalla drammaticità barocca, che è inevitabile sfuggire a chi si appresta nel raccontare alcuni aspetti di Napoli, e che rimanda ad un altra grande autrice quando con la parola entrò nel ventre della città: Matilde Serao.

La parola, quindi il linguaggio.

In tutto il libro, fin dalle prime pagine, il linguaggio, quello usato sia dalla voce narrante che dai personaggi sembra essere un linguaggio vero, non filtrato. Quel linguaggio fatto dalla gestualità, i tic, il napoletano parlato, addolcito, tipico degli ambienti intellettuali di cui fanno parte i protagonisti del libro, e dei personaggi che intorno a quegli ambienti vivono, quella lingua che ha i suoi fonemi e lemmi intraducibili in altre lingue, a volte onomatopeici altre volte sintesi di concetti profondi, insieme alla descrizione dei luoghi dove si svolge la storia, dal terrazzino sopra PortAlba del Prof Giuliano, fino ai sotterranei della Cappella Sansevero, passando per palazzo Sansevero e piazza san Domenico Maggiore, come pure la descrizione dell'aula magna dell'università, del pavimento labirintico della cappella sansevero e, poi, la poesia di alcuni passaggi, come l'accarezzamento dello sguardo che lentamente scorre sul velo del cristo, o la visione dei fantasmi svolazzanti -che non vi svelo cosa erano per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli leggendo il libro- il bar dove si svolge la partita a vicino la cappella rinascimentale Pontano con la mostra di macchine rinascimentali, e ancora i vicoli e la storia dei quartieri Spagnoli e la veduta dell'insieme della città nelle opere dei viaggiatori del Grand Tour, quindi la luce, la luce di Napoli, quella luce contrastante che caratterizza la città, quella abbagliante della certosa di San Martino e quella buia dei vicoli, e della Napoli sotterranea, finiscono per essere delle pure descrizioni e fanno assumere a quei luoghi e ciò che accade in quei luoghi, una forte valenza simbolica.

Con questo sistema di immagini, dentro le quali si svolge la storia, l'autore mi fa viaggiare con i sensi come in uno dei suoi immaginifici disegni.

Ho detto prima che Giacomo Ricci è un abile disegnatore e io ho avuto la fortuna di vedere molte delle sue opere, che ricordano, vagamente, il carattere di quelle improbabili architetture borghesiane disegnate da Echer: intrecci di scale, di cunicoli, labirinti di labirinti, frammenti di sculture, anime vaganti, specchi, finestre, luce e buio.

Proprio con questo suo approccio, onirico, con la parola ha realizzato questo spaccato assonometrico di un pezzo di città.

La parola, in questo libro, è usata dall'autore con la forma mentis dell'architetto, estraendola come materia prima dal luogo stesso che deve rappresentare.

Come la pietra delle architetture di Napoli in origine era liquida e di fuoco, così, nel libro di Giacomo Ricci, la parola nasce dal fuoco liquida, per poi raffreddarsi, solidificarsi e cristallizzarsi in immagini nitide, per poi, nella mente del lettore ritornano ad essere di nuovo fuoco.

Io ho sempre detto che la Parola per lo scrittore è come la Pietra per uno scultore, in questo caso la Pietra è intesa come materia prima per un architetto.


La Parola

La materia prima per uno scrittore

La Pietra


E sempre ritorni. Arricchita, eterna forma

bloccata dal tempo nel castello. Giardini

ed infinite prigioni. Hai attraversato deserti,

e scintillanti fuochi illuminano i tuoi profili.


Pietra, tra infinite t'ho smarrita, poi trovata.

Dentro ogni dove t'ho cercata, poi levigata,

lustrata. Nell'anima un segreto: la bellezza.

Della natura raro gioiello: la materia grezza.


Piccola, preziosa, nella mano. La mia vista

stordita dalla tua luce. Sei canto che incanta.

Soave. Il tuo volto è un colorato universo,

Gioiello prezioso, cristallo, turchese e rosa.


Melodie si sono affacciate alla mia anima.

I miei occhi ti hanno toccato, la mia bocca

ha distinto il tuo delizioso profumo di rosa

ha assaporato dolcezza, silenziosa musica.



La pietra, la parola.

Qualche sera fa sono stato ad una presentazione di una mostra su una artista napoletana , Lina Mangiacapre. In quella occasione il professore Aldo Masullo, ad un certo punto del suo intervento, ha parlato di libertà e bellezza, sostenendo che la bellezza come la libertà sono concetti che sono “oltre” oltre i naturali limiti che ognuno di noi ha. “Oltre i confini del sensibile”.

Uno degli strumenti per andare “oltre” è, nella accezione crociana, la poesia, quindi:

che guarda caso ha vissuto la sua vita di filosofo e pensatore proprio in quell'ambito territoriale descritto nel libro di Ricci, “La poesia, dice Benedetto Croce

Magari fosse sempre così. Invece spesso assistiamo che, chi usa la parola scritta come forma di espressione, lo scrittore, e il particolare il poeta, rincorrendo una forma sempre più accettabile e condivisibile dai più, sembra perdere di vista la vera forza e la vera potenza dello strumento che ha tra le mani e che lui sa usare: lo strumento che gli potrebbe permettere di andare, come ha sottolineato Masullo, oltre i limiti e svelare la bellezza in piena libertà.

Questo libro mi è piaciuto perché in alcuni momenti le parole, le pietre di fuoco, bruciano i limiti dell'espressione e fanno approdare il lettore in un territorio libero con leggerezza.

Diventano di fuoco quando raccontano di fatti che sembrano essere conosciuti da tutti: come quelli della baronia universitaria che gestisce le cattedre e quindi la trasmissione del sapere; quando illuminano quei vicoli dei quartieri, dove la luce fa fatica ad arrivare fino al selciato, luoghi dove non si è mai voluto affrontare seriamente una politica di trasformazione urbana che mirasse ad una vera riqualificazione, anche con interventi radicali sul territorio, con coraggio e determinazione, con l'obbiettivo ultimo quello del miglioramento della qualità della vita di quei posti; diventano di fuoco quando disegnano il ritratto del femminiello, deriso e cercato da tutti, e che nell'immaginario delle persone cosiddette “perbene” incarna il male.

Molti di voi mi conoscono, e conoscono il mio amore per la parola scritta e per la poesia in particolare.

Oggi viviamo un periodo drammatico, sotto tanti punti di vista e il compito di un poeta dovrebbe essere anche quello di svelare, rivelare, questa drammaticità con il suo strumento: la poesia.

Io amo la poesia, chi ci sta seguendo in questa esperienza del salotto se ne sarà accorto.

In internet, su Facebook ho fondato tempo fa un gruppo dedicato alla poesia, dove migliaia poeti e scrittori e persone che amano scrivere versi, regolarmente pubblicano sula bacheca o mi mandano per e-mail le loro poesie.

Ne avrò lette migliaia.

La maggior parte di queste sono composte da parole addolcite,vestite di niente, con un carattere documentario rispetto alla vita dell'autore o, quando vogliono parlare di un problema sociale, al loro tempo, purtroppo però coprendo, consapevolmente o non, più che svelare ciò che di drammatico c'è dentro e intorno a noi,

La drammaticità che ci fa anche gioire, quella che vive “oltre i limiti del sensibile” viene svelata solo con la poesia, la quale andando oltre, trascende il tempo, la società, e anche sé stessi, pur svelando i misteri più profondi dell'io e dell'universo.

Una volta navigando sulla mia home page di Facebook, mi capitò davanti agli occhi un video.

Era un video drammatico.

Venivano mostrati dei bambini in Cambogia, maltrattati e usati per soddisfare i desideri sessuali degli adulti e dei turisti.

Rimasi, sconvolto da quelle immagini.

Incominciai a riflettere sul senso della mia parola scritta in quel gruppo di poeti.

Da quel momento in poi non riuscivo più a leggere quelle “belle e dolci poesie” e tantomeno a scriverne.

Sentivo che io, come tutti quelli che usavano la parola scritta la dentro, avevamo un'arma potentissima tra le mani e piuttosto che usarla come potevamo e dovevamo, giocavamo con le parole senza dire veramente niente, sembrava che coprivamo l'orrore del mondo sotto un tappeto di belle e dolci parole.

Guardavo quel video, leggevo qualche mio verso, qualche verso di qualche mio amico poeta, e in quel momento mi sentivo:Complice.


Complice.

Parole nude, affiorano dal profondo, inutili.

Le farfalle volano cercando cristalli nei sogni,

e le fiamme nella foresta bruciano ali e tempi.

Barbari, mercenari, cannibali, preti e profeti.


Forma assente, vuoto, nella mente dilaga follia.

Silenzi assordanti sfondano i timpani, campane

di bronzo fuso dal fuoco dell'inutile guerra.

Nella mente specchi, pensieri brucianti di rabbie.


Poeta, taci? tu non puoi! la tua è Poesia. Illusione

e paura, mia, riflessi muti su pareti di gomma. L'orrore

invade il mondo; potenti, bellezze, orchi, del pudore

divoratori. Striscia, tranquilla, languida, la parola vestita.


Piccoli fiori senza più petali. Fragile gazzella, pelle

consumata dagli sguardi assetati di affamati leoni.

Il mondo guarda, il mondo sa, è complice e tace.

Vendute, le vendono morte nell'anima. Ed io, poeta?


NO, Complice!


M.S.© copyright2011

2 commenti:

  1. Leggerla era già stata una grande emozione, Mario! Questa tua opera la ricordo molto bene... Sentirtela recitare dal profondo, sentire le tue argomentazioni sofferte, ma così vere, è straziante e meraviglioso al tempo stesso. Adesso basta parole. La parola... al silenzio.

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  2. La parola.. al silenzio..come disse bellamente la signorina Catalano.
    La parola dopo la parola,sarebbe l'idea generale.e anche l'idea generatrice,perché la parola si produce nel Tempo,ed é quasi una neccessitá pragmatica dell'agire del Tempo:cosí,cerca il finale,la pausa che porta il volo verso il silenzio.

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